Spirito d’impresa e venture capital, per le startup italiane (e le innovazioni) è una nuova età dell’oro

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per le imprese

 


di
Laura Magna

L’ecosistema è in crescita dopo almeno 30 anni di stagnazione e ritardo. Oggi c’è un venture capital che funziona e una nuova generazione più incline a fare impresa

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Nel secondo dopoguerra l’Italia è stata terra di inventori e di innovazione spinta. L’industria del bianco, da Ariston a Candy, il papà di tutti i PC, il Programma 101 della Olivetti, il polipropilene lineare di Giulio Natta e la Nutella di Ferrero, sono solo alcuni degli esempi del variegato genio italiano da cui derivano l’industria italiana e il modello dei distretti.
Ma che ne è di questo fermento, che sembra aver saltato del tutto la Gen X e i Millennial? «È successo che i laureati hanno cominciato a mirare soprattutto al lavoro dipendente. Il boom economico ha portato ricchezza, ma anche un atteggiamento più protettivo delle generazioni precedenti verso i figli. Questo ha contribuito a spegnere lo spirito imprenditoriale nel corso degli ultimi 30-40 anni», spiega Andrea Rangone, accademico, imprenditore e startupper.

L’imprenditorialità si può imparare

Professore al Politecnico di Milano da oltre 20 anni, Rangone insegna imprenditorialità e innovazione, contribuendo alla formazione di nuove generazioni di imprenditori. È stato tra i fondatori di PoliHub, l’incubatore di startup del Politecnico focalizzato su innovazioni tecnologiche e deep tech. Ha guidato Digital360, società che supporta imprese e pubbliche amministrazioni nella trasformazione digitale, ed è autore di diverse pubblicazioni su economia e tecnologie emergenti.
Rangone ha partecipato a un evento intitolato «Trends and Directions in Entrepreneurship», un dialogo tra lui, Alessandro Fracassi (co-fondatore e ceo del gruppo Moltiply) e Bill Aulet (docente al Mit di Boston e autore di un bestseller sull’imprenditorialità).




















































Dall’Italia dei distretti al progetto Restart Italia

«Il nostro Paese ha espresso, a partire dal secondo dopoguerra, tassi altissimi di microimprenditorialità, dando vita a un’industria italiana straordinariamente florida, un modello studiato in tutto il mondo anche per i suoi distretti industriali. Era un’Italia con basso tasso di scolarizzazione e una povertà diffusa, eppure era anche un terreno fertile per l’imprenditorialità. L’Italia in quegli anni divenne la quinta potenza industriale del mondo», spiega Rangone.
Poi un lento declino e la stagnazione. Ma un cambio di passo si è registrato già dieci anni fa, nel 2014, con il progetto Restart Italia del governo Monti. Questo piano introdusse normative favorevoli alle startup, e quindi all’innovazione, agevolazioni per gli investimenti e semplificazioni burocratiche, rigenerando la scena imprenditoriale italiana.

L’ecosistema delle startup italiane e la spinta che manca

«Oggi l’ecosistema italiano delle startup è in crescita, ma manca un vero salto», osserva Rangone. Il confronto con il modello americano evidenzia il gap culturale: negli Stati Uniti, la cultura imprenditoriale è radicata a tutti i livelli. «Molti giovani americani ambiscono a diventare imprenditori per avere un impatto sulla società. Anche in Italia c’è questa aspirazione, ma non siamo ancora riusciti a concretizzarla pienamente. Questo influisce sul Pil, perché nei Paesi avanzati la crescita economica dipende molto di più dalla nascita di nuove imprese che dall’espansione di quelle esistenti».

Il ritardo italiano e il momento di rilancio

Negli Stati Uniti, due grandi ondate di imprenditorialità hanno prodotto giganti come Exxon, Walmart, Microsoft, Apple e Google, sostenuti da un ecosistema solido basato su venture capital e Silicon Valley.
«In Italia, il venture capital è nato solo negli anni ’90 e, dopo il crollo della new economy, molti fondi sono stati chiusi. Oggi, però, investiamo oltre 1,5 miliardi di euro all’anno in startup, registrando segnali di ripresa più forti rispetto a Paesi come Germania e Francia. Questo è il momento giusto per accelerare».
Per Rangone, la questione culturale è centrale. «Insegnare imprenditorialità all’Università non basta: serve un cambio di mentalità fin dalle scuole superiori, con competizioni, role model positivi e una comunicazione più incisiva. L’imprenditore, spesso demonizzato, è invece colui che crea il futuro, dalle innovazioni digitali ai vaccini. Un nuovo storytelling positivo sull’imprenditoria farebbe bene all’intero sistema economico».

Il metodo Aulet per il successo delle imprese

E infine, serve un metodo. Bill Aulet, docente al Mit, nel suo bestseller «Disciplined Entrepreneurship: 24 Steps to a Successful Startup», propone un percorso strutturato in 24 step.
Secondo Aulet, esistono due tipi di imprenditori: quelli che guidano PMI focalizzate sul mercato locale, con crescita lineare, e quelli delle imprese basate su innovazione, con focus sui mercati globali e potenziale di crescita esponenziale.
Per queste ultime, è fondamentale studiare il modello imprenditoriale, comprendere i cambiamenti del mercato e sviluppare una strategia di innovazione che integri invenzione e commercializzazione.
L’imprenditorialità, conclude Rangone, si può imparare: non basta il talento, sono essenziali le competenze acquisite e il perfezionamento continuo del modello di business.

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