Cosa succede se offendo un collega di lavoro o il coniuge?

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Commettere diffamazione ai danni del collega, del suo marito o della moglie può comportare il licenziamento?

Non poche volte la vita extralavorativa di un dipendente può incidere sul suo rapporto di lavoro e determinare sanzioni disciplinari o, nei casi più gravi, il licenziamento. Questo perché il compimento di un reato può avere ripercussioni, da un lato, sull’immagine dell’azienda e, dall’altro, sul clima di fiducia e di garanzia che deve instaurarsi negli uffici o negli altri ambienti lavorativi. Cosa si rischia allora nel caso in cui, per un litigio, un lavoratore diffami un altro dipendente? La domanda a cui vogliamo rispondere qui di seguito, alla luce delle più recenti pronunce della Cassazione, è la seguente: cosa succede se offendo un collega di lavoro o il suo coniuge?

Il lavoratore dipendente che insulta un collega o lo diffama pubblicamente sui social media può incorrere in sanzioni disciplinari. Tuttavia, il licenziamento è solo l’ultima spiaggia da riservare alle ipotesi più gravi, quelle cioè che compromettono irrimediabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro.

Con la sentenza n. 23029/2024 la Cassazione ha annullato il licenziamento di un lavoratore che, con tono prima ironico e poi dispregiativo, aveva umiliato una collega per ragioni di gelosia (leggi Chi insulta i colleghi cosa rischia?). Secondo la Corte, il comportamento è certamente censurabile e quindi passibile di sanzione disciplinare, ma questa non può arrivare all’espulsione. Tanto più che, nel caso di specie, la condotta non era inquadrabile come un reato: avendo proferito infatti l’offesa direttamente nei confronti della vittima, il dipendente aveva commesso un’ingiuria e non già una diffamazione (che invece presuppone l’assenza del destinatario della frase e la presenza di più persone).

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Più di recente, con sentenza n. 30558/2024, la stessa Cassazione ha detto che l’offesa sui social rivolta alla moglie di un collega non giustifica il licenziamento, nonostante la sussistenza di una vera e propria “diffamazione aggravata” (perché compiuta attraverso un mezzo di pubblicità qual è internet).

Secondo la Corte, la condotta extralavorativa tenuta dal lavoratore – consistente nella pubblicazione di un post su Facebook con espressioni gravemente offensive nei confronti di un ex coniuge di un dipendente della stessa azienda – benché punita in sede penale, non ha alcun collegamento con il rapporto di lavoro, né incide sul legame di fiducia che deve sussistere col datore.

Violazione dei doveri del dipendente e licenziamento per giusta cauusa

Ricordiamo che, secondo l’art. 2104 del Codice civile, il lavoratore è tenuto a comportarsi con diligenza e buona fede nell’esecuzione della prestazione lavorativa. Inoltre, l’art. 2105 cod. civ. impone l’obbligo di fedeltà, che include il dovere di non danneggiare il datore e l’ambiente di lavoro.

Lo Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300/1970) all’art. 7 disciplina le sanzioni disciplinari, prevedendo che queste devono essere proporzionate alla gravità dell’infrazione e che il dipendente ha diritto a presentare le proprie giustificazioni.

Il licenziamento per giusta causa si verifica quando sussiste una condotta talmente grave da non consentire la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro.

Offese e diffamazione sui social media

La Corte di Cassazione ha stabilito che le offese pubblicate sui social possono costituire giusta causa di licenziamento solo quando la vittima è il datore di lavoro, i superiori gerarchici o genericamente i prodotti o servizi commercializzati dall’azienda. E ciò perché i social media amplificano la diffusione delle dichiarazioni lesive.

In particolare, la Suprema Corte ha affermato che:

«La pubblicazione di frasi offensive rivolte al datore di lavoro o ai colleghi su un social network integra una condotta idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, giustificando il licenziamento per giusta causa» (sent. n. 10280/2018).

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È fondamentale che la sanzione sia proporzionata alla gravità del comportamento. I giudici devono valutare diversi fattori, tra cui:

  • la gravità dell’offesa;
  • le implicazioni sull’ambiente di lavoro che può avere la condotta ai fini di un sereno svolgimento delle mansioni;
  • gli eventuali precedenti disciplinari commessi dallo stesso dipendente.

I CCNL possono prevedere specifiche sanzioni per comportamenti lesivi tra colleghi.



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