Recentemente il CPP ha festeggiato i 35 anni dalla sua fondazione, ma cosa vuol dire educare al giorno d’oggi? Ne abbiamo parlato con il Professor Daniele Novara, pedagogista, autore, fondatore e direttore del CPP, Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti.
Professor Novara, per i 35 anni del CPP è stato realizzato un murale intitolato “Rompere il guscio, vivere il conflitto, far nascere nuove risorse”. In questa opera sono racchiusi tre priorità del vostro centro, partiamo dalla gestione del conflitto, ci dice cosa vuol dire vivere il conflitto oggi e ci ribadisce la differenza tra conflitto e violenza?
Esatto, questo è un po’ l’elemento storico del nostro lavoro. Ricordo che già nel 1990 scrivevo un libro che si intitolava proprio “Il litigio, materiali per una didattica della non violenza”. Insomma, è un tema che da sempre mi ha intrigato, mi ha incuriosito, che mi ha fatto capire che proprio su questo argomento bisognava insistere, bisognava lavorare, perché è un tema di sopravvivenza. In natura, come è noto, gli organismi viventi devono saper affrontare le intemperie, altrimenti muoiono o si ammalano.
Proprio per questo resto dell’idea che se non sai affrontare il conflitto rischi la vita, ma non perché non sei abbastanza pronto a rispondere colpo su colpo, non è questo, ma perché sotto il piano psicologico e psichico ti vengono meno gli anticorpi, gli antidoti per affrontare le sfide della vita e quindi si può finire in situazioni di depressione, di malattia psicosomatica o comunque anche di violenza nel vero senso della parola. Per cui imparare a gestire bene il conflitto è uno scopo nobile, secondo me importantissimo, anche se purtroppo va detto che il lavoro non ci manca, nel senso che specialmente negli ultimi due o tre anni abbiamo fatto tanti passi indietro.
L’immaginario si è riempito della categoria della guerra, prima con l’Ucraina, poi con la Palestina e non solo quello, si è riempito di armi, distruzioni, nemici, morti. Da questo punto di vista si è tornati indietro ed è pericoloso. I giovani si stanno facendo del male anche per questo, perché un immaginario così impregnato di guerra e di violenza agisce sulle neuroconnessioni giovanili, spingendoli ad azioni nefaste verso loro stessi e verso gli altri ovviamente. Per cui il tema forte è questo, perché se sai vivere bene il conflitto, se sai affrontare i conflitti sapendo comunicare piuttosto che aggredire o addirittura usare violenza, ecco che la tua vita è più facile, è più felice direi.
Noi non possiamo evitare queste situazioni, ma la felicità sta proprio nel saperle affrontare bene. Noi abbiamo sviluppato il metodo litigare bene per i nostri bambini e per i ragazzi abbiamo tanti strumenti per aiutarli, ma in generale ci vorrebbe veramente un grande piano, un grande programma di alfabetizzazione conflittuale, perché un elemento che ho ricordato anche durante la giornata contro la violenza sulle donne è che chi non sa affrontare i conflitti relazionali è destinato alla violenza, o verso sé stesso o verso gli altri.
Quindi è pericolosissimo che la società non si muova in questa direzione, che addirittura trascuri un’educazione civica centrata su questo. In fondo la democrazia cos’è? È una ritualizzazione dei conflitti senza violenza, se lo dimentichiamo poi rischiamo di non dare sufficiente valore proprio al voto e alla partecipazione. Bisogna presidiare, vigilare su queste componenti fondamentali della vita democratica, andare a votare, essere presenti, vivere la democrazia, sono aspetti che ci consentono di essere risparmiati dalla violenza e dalla guerra, così come dice la nostra Costituzione, all’articolo 11, l’Italia ripudia la guerra, e questo è un punto molto importante.
Il secondo aspetto è rompere il guscio, cosa vuol dire educare affinché avvenga questa “rottura”?
Esatto, ne ho parlato tantissimo nel mio ultimo libro “Non sarò la tua copia” che parla di liberarsi dai copioni educativi. In pratica sono due le operazioni che dobbiamo fare, da un lato ricevere un’educazione, che è molto importante ed è un diritto, è contenuto nella Convenzione sui diritti dei bambini e delle bambine, perché ciascuno di noi ha bisogno di un padre e di una madre, di una scuola e di un insegnante. Avere una formazione vuol dire avere qualcuno che ti aiuta a crescere.
Ma rompere il guscio in età adolescenziale, ma tanto più in età adulta, vuol dire sapersi liberare dell’educazione ricevuta e costruirsi un’educazione che non è più quella che hai ricevuto dai tuoi genitori, dalla tua scuola o quant’altro, ma è ciò che tu stesso hai scelto, tu stesso hai voluto, su cui ti sei sintonizzato. È il processo di apprendimento in età adulta che ti libera dai copioni educativi, ad esempio i genitori di oggi si sono sostanzialmente liberati dall’idea punitiva verso i figli, anche se a dire la verità non proprio tutti, però quasi tutti si sono liberati ed è fondamentale.
Questo vale anche per gli insegnanti, oggi a scuola nessuno può più mettere le mani addosso agli alunni. Un tempo non era così, Io ero alunno negli anni 60-70 e a quei tempi altro che le mani addosso, eravamo come degli allenatori per i nostri insegnanti, ce ne erano tantissimi maschi. Poi c’è stato il cambiamento, per fortuna direi, in pratica di generazione in generazione si riceve un’educazione e poi la si sfronda.
Questo è rompere il guscio, vivere il conflitto con le proprie radici per tenere le cose buone e liberarsi di quelle che non ti servono o che addirittura sono nocive. È un’operazione formidabile, straordinaria, e noi come istituto su questo siamo veramente impegnati in prima linea.
Il terzo aspetto è legato a far nascere nuove risorse. A livello educativo, sia a scuola che in famiglia, come avviene questo processo?
È il processo maieutico. Noi parliamo di metodo maieutico, che poi l’ho chiamato col mio nome, e la maieutica è un termine greco che sta per l’arte ostetrica, il far nascere. Di questo abbiamo bisogno, di metodi di apprendimento che non siano né ripetitivi, né nozionistici, né autoritaristici, né impositivi, ma metodi che sappiano generare e che sappiano far vivere agli alunni, nel caso della scuola, o comunque agli allievi, nel caso anche di centri educativi come il nostro, esperienze dove, come direbbe la Montessori, imparo tirando fuori le mie risorse, aiutami a fare da solo. Io credo moltissimo a questo claim montessoriano e ho sempre giocato su questo versante, su questo registro.
Fare in modo che le persone di cui mi sento responsabile sotto il profilo dell’apprendimento siano impegnate non ad ascoltare, non a ripetere, non a “scimmiottare”, non a darmi conferma, ma a cercare, anzitutto dentro sé stessi, a livello di laboratorio, cercare sempre per trovare risposte che siano confacenti a sé stessi, alla propria natura.
Lo vediamo anche con i bambini, pensiamo ad esempio allo sport, non tutti i bambini amano lo sport oppure lo stesso tipo di sport, se così fosse oggi in Italia dovremmo tutti praticare il tennis, ma non sta succedendo, quindi tirare fuori vuol dire riscoprire le risorse che abbiamo già e generarne nuove. Questa è l’educazione, non dare risposte esatte a domande più o meno tendenziose.
Un’ultima domanda, il vostro centro rappresenta l’efficacia del lavoro in gruppo, quale insegnamento si può trarre per realizzare sinergie positive in ambito familiare, tra i genitori, in ambito scolastico, tra gli insegnanti, e nell’alleanza educativa tra scuola e famiglia?
Noi siamo una cooperativa, quindi lavoriamo sempre come staff, come gruppo. Io sono un fanatico, in un certo senso, del lavoro di gruppo, sono uno, come sanno i miei collaboratori, che chiede sempre aiuto e chiede sempre di lavorare insieme. Sono contrarissimo al proverbio “chi fa da sé fa per tre”, mi sembra un proverbio inventato da una persona poco lungimirante.
Oggi lo vediamo anche quando viene assegnato il premio Nobel per le materie scientifiche, è rarissimo che lo riceva una persona soltanto, perché comunque c’è sempre un lavoro d’equipe, c’è sempre una condivisione, nessuno, anche nel nostro caso, si educa da solo.
Quindi noi facciamo squadra, lavoriamo insieme, ci credo moltissimo. Ad esempio quando devo pensare qualcosa, devo inventare qualcosa, ho assolutamente bisogno che ci siano gli altri, è nella condivisione che mi vengono le idee, perché da solo continuo a mulinare e a macinare sempre le stesse idee. Alla fine di ogni riunione chiediamo se ci stiamo dimenticando qualcosa o se c’è qualcosa che abbiamo trascurato, è fondamentale farsi questa domanda alla fine di una riunione perché è bellissimo che ognuno porti il suo punto di vista e allora ecco che il conflitto diventa generativo, perché ognuno porta qualcosa.
Non che abbiamo paura se c’è una divergenza, se c’è un’opinione diversa, questo è il bello e ti permette di arricchirti. È anche il bello della democrazia, in un certo senso. Prendiamo ad esempio la tecnica del brainstorming o delle libere associazioni, sono tecniche favolose da questo punto di vista, ci permettono di scoprire nuovi mondi, nuove possibilità. Lo stesso vale per i genitori, conta il gioco di squadra, proprio per questo dico sempre ai genitori di parlare in prima persona plurale ai figli: “ti abbiamo detto”, “ti abbiamo chiesto”, “vogliamo sapere”, “ti proponiamo”; e mai in prima singolare: “ti ho detto”, “ti ricordo che” e così via.
Sono dettagli di una comunicazione che simbolicamente raggiunge di più i figli proprio su questo versante, il versante di un gioco di squadra dove i genitori non si presentano da soli, non si presentano nell’esclusivizzazione con i propri figli, in un rapporto totalmente personale, ma vivono il loro essere genitori come momento di condivisione educativa, dove paterno e materno giocano in una stessa direzione. Lo stesso vale a scuola, dove però questo è ancora più difficile, perché purtroppo con gli orari scolastici che abbiamo nella scuola italiana conta solo l’ora di lezione, mentre bisognerebbe costruire un altro orario settimanale, ad esempio di 30 ore, dove c’è dentro anche l’attività di gruppo fra gli insegnanti. Sono dell’idea che nei veri centri educativi in aula si sta in due, non da solo. Nei centri che seguo si sta in due sempre.
L’isolamento, la solitudine, la magistralità individuale, molto gentiliana, sono poco efficaci, non raggiungono gli alunni. Invece gli alunni devono sentire che gli insegnanti fanno squadra, così come i figli devono sentire che i genitori fanno squadra. Fare squadra vuol dire anche discutere, avere un conflitto che però bisogna imparare a gestire bene, e questo avviene se c’è rispetto, ascolto, e se si analizzano con attenzione i punti di vista diversi.
Per questo la scuola deve puntare di più sul lavorare assieme, sull’imitazione, sulla condivisione fra gli alunni. Non mi stancherò mai di ripetere che a scuola si impara dai compagni più che dall’insegnante. L’insegnante è un regista, però i compagni ti fanno veramente imparare, perché ti mettono nella condizione di superarti, di collaborare ad ogni costo. I compagni hanno bisogno di te e viceversa. Ecco che in questa dimensione, che è una dimensione cooperativa, la scuola ribadisce la sua funzione principale che è quella di aiutare gli alunni a saper vivere, vivere bene con sé stessi e vivere bene con gli altri.
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