Simbolo del boom economico, utilizzate da contadini, artigiani e non solo. La Piaggio non la produrrà più nello stabilimento di Pontendera
Se dovessi suggerire un simbolo del miracolo economico italiano, non indicherei la Fiat Seicento, il Pirellone svettante dinanzi alla stazione di Milano, e neppure la storica targa MIAO che indicava il milionesimo veicolo immatricolato nel capoluogo lombardo. Indicherei, nelle sue svariate versioni, l’Ape: un razionale e semplicissimo veicolo lanciato dalla Piaggio nel lontano 1948 e prodotto, come ovvio con diverse varianti, sino a pochi giorni fa (ora sarà fabbricata solo nei mercati asiatici).
Per i detrattori, una sorta di mulo a motore, uno scomodo ingombro sulle strade, un simbolo dell’arretratezza dell’economia italiana postbellica. In realtà una di quelle geniali invenzioni che contribuirono a cambiare la nostra società, assicurando quella democratizzazione dell’economia, quella razionalizzazione della logistica, quella semplificazione degli scambi che sarebbero stati alla base di un miracolo economico diffuso, destinato a svilupparsi non solo nel triangolo industriale, ma anche nelle campagne e nei centri minori, in un’Italia ancora agricola e artigianale in cui — per chi non aveva potuto permettersi di acquistare mezzi di maggiori dimensioni, magari camion militari smobilitati dopo la guerra, come il mitico Lancia 3Ro — fare arrivare i propri prodotti ai committenti costituiva un serio problema.
L’Ape, come indicava il nome, nasceva come laboriosa e industre sorella della Vespa. Questa, nel 1947, in un’Italia in cui anche la bicicletta era un bene prezioso, come ricordavano i film neorealisti, aveva contribuito insieme alla rivale Lambretta ad abbattere le distanze per quegli italiani che non potevano ancora permettersi un’utilitaria. Questo maneggevole motofurgone di piccola cilindrata, dai consumi limitati, dal modesto prezzo d’acquisto, si rivolgeva alle microimprese che avevano bisogno di effettuare facilmente le consegne, di rifornirsi di prodotti in maniera autonoma, sulle strade di campagna come nel traffico cittadino.
L’inventore di questo «mulo da soma», che «fa il lavoro di 10», come recitava un vecchio slogan, era lo stesso della Vespa: l’ingegnere aeronautico Corradino D’Ascanio. E del fortunatissimo scooter conservava su tre ruote le caratteristiche fondamentali, compreso il motore da 125 di cilindrata.
La portata era di 200 chilogrammi, ideale per piccole consegne, ma anche per i rifornimenti familiari e a volte anche per il fortunoso trasferimento dalla campagna alla città di passeggeri, magari abusivi secondo le severe norme del codice della strada. E in effetti l’Ape finì per divenire il simbolo dello spirito duttile di un’Italia in cammino che dopo le angustie della guerra e del primo dopoguerra cercava di crescere al di fuori di lacci e lacciuoli.
Con l’umanità laboriosa e un po’ ruspante che l’utilizzava, quel motofurgone di piccola cilindrata divenne una presenza costante del paesaggio nazionale, nelle pellicole con Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, ma sfondava anche sui mercati esteri, con diverse denominazioni. In Francia, per esempio, venne ribattezzato Triporteur.
Con gli anni Sessanta e Settanta e l’avvento di un benessere diffuso la popolarità dell’Ape parve declinare, mentre conosceva un ritorno di fiamma la Vespa, anche grazie a slogan fortunati e un po’ criptici come «chi vespa mangia le mele» o «con Vespa si può». E più di un giovane automobilista alla guida di una rombante auto sportiva avrà strombazzato impaziente su di un’angusta strada di campagna a quelle «carriole troppo cresciute», senza considerare che forse proprio grazie a esse il padre aveva potuto realizzare i primi guadagni grazie ai quali, anni dopo, si era potuto permettere di comprargli dopo la maturità la Golf o la Mini. Eppure, sino all’ultimo, l’Ape ha conservato un proprio mercato, specie dopo il restiling di Giugiaro, e le sempre nuove versioni, non solo in Italia, ma all’estero.
E all’estero, purtroppo, sarà d’ora in poi prodotta e commercializzata: per l’esattezza in India, dove sono meno rigorose le normative in materia di sicurezza e inquinamento. Un brutto colpo, a distanza di 76 anni dalla prima Ape uscita dallo stabilimento di Pontedera, per uno dei tanti simboli dell’eccellenza motoristica italiana. Anzi, per l’esattezza, toscana.
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