La guerra in Sudan ha portato il Paese in una spirale di violenza e disperazione. Per comprendere meglio le dinamiche di questo conflitto. Abbiamo chiesto a Yagoub Kibeida, rifugiato sudanese residente a Torino e figura di spicco nel campo dei diritti dei rifugiati, di fornirci una panoramica dettagliata sulla guerra in Sudan. Yagoub è il direttore esecutivo di Mosaico – Azioni per i rifugiati, un’associazione che dal 2006 offre sostegno ai rifugiati di varie nazionalità nell’area torinese. L’associazione, caratterizzata da un team multiculturale, non rappresenta semplicemente una specifica comunità nazionale o religiosa, ma offre sostegno a tutti i rifugiati. Oltre al suo ruolo in Mosaico, Yagoub ricopre importanti incarichi a livello europeo e internazionale. È vicepresidente del Consiglio europeo per i rifugiati a Bruxelles e presidente di un’organizzazione emergente che si occupa di rifugiati sfollati in Sudan e di Global Air Connect.Inoltre, Inoltre è segretario dell’associazione unire- Unione Nazionale Italiana
Quali sono le principali cause e conseguenze del conflitto in Sudan?
La guerra in Sudan è priva di significato e serve principalmente agli interessi personali di pochi individui. Il conflitto tra i due generali che hanno ostacolato il governo di transizione democratica dopo la caduta del regime islamista militare del Bashir, ha radici precise. Per comprendere meglio la situazione, è essenziale sapere cosa ha portato alla formazione di questo governo di transizione. Inizialmente, c’è stata una rivoluzione popolare pacifista. Ciò ha dimostrato che il popolo sudanese, noto per essere pacifista, è in grado di abbattere un regime dittatoriale senza ricorrere alla violenza. Tuttavia, questa caratteristica distintiva del Sudan è spesso fraintesa dai media occidentali, che tendono a descrivere i conflitti africani come guerre civili etniche, offrendo una definizione superficiale della situazione. Il regime dittatoriale islamista al potere in Sudan da 30 anni ha causato numerose atrocità, tra cui genocidi in Darfur, l’oppressione delle donne e l’eliminazione degli oppositori. Tuttavia, nel 2019, una rivoluzione pacifista ha portato alla fine di questo regime, portando alla formazione di un governo di transizione, composto per metà da militari e per metà civili, con l’obiettivo di portare il Paese a elezioni democratiche entro tre anni.
Purtroppo, il 25 ottobre 2021, il generale delle Forze Armate Sudanesi (esercito regolare) Abdel Fattah Abdelrahman Burhan, a capo del governo di transizione, insieme al suo vicepresidente della transizione, il generale delle Forze di Supporto Rapido (milizia) Mohamed Hamdan Dagalo, ha effettuato un colpo di stato, escludendo i civili dal governo al fine di amministrare in modo indipendente. Questo ha portato a una ostilità tra i due generali. Il sostegno, per interessi nella regione, a entrambi, da parte di paesi terzi, non fa altro che prolungare il conflitto. Il popolo sudanese, non coinvolto, è quello che soffre di più. Le milizie, a dispetto delle principali regole di guerra e dei diritti umani, saccheggiano case, fabbriche e proprietà private, spingendo la popolazione a fuggire. Inoltre, la Russia e gli Emirati Arabi controllano le miniere d’oro del Sudan, scambiando l’oro con armi e alimentando ulteriormente il conflitto. Secondo stime non ufficiali, questo conflitto ha causato 25 milioni di sfollati, oltre due milioni di rifugiati e circa 150.000 morti. La mancanza di una documentazione e di infrastrutture adeguate rende difficile un conteggio accurato delle vittime. Un istituto londinese ha stimato che solo a Khartoum sono morte oltre 60.000 persone, mentre le organizzazioni internazionali riportano cifre molto inferiori. Alla fine del conflitto, il numero totale di morti in Sudan potrebbe superare quello di tutti gli altri conflitti attuali messi insieme, compresi Gaza e Ucraina.
Quali sono gli effetti della stigmatizzazione delle donne violentate in Sudan e cosa può fare la comunità internazionale per porre fine alla violenza?
Le donne sudanesi soffrono molto a causa delle milizie che, quando entrano nei villaggi, uccidono gli uomini e violentano le donne. Per evitare di essere stuprate, molte donne scelgono il suicidio di massa, preferendo la morte all’umiliazione. In Sudan, lo stupro è un tabù e una donna stuprata viene stigmatizzata dalla comunità, considerata un disonore per la famiglia e la tribù. Le milizie sfruttano questo tabù per umiliare le donne, per terrorizzare la popolazione e le costringono a fuggire e non combattere. Quando una donna viene stuprata, non può vivere con la vergogna, e le milizie usano sistematicamente lo stupro come arma di guerra. Questo modus operandi non è limitato al conflitto attuale, ma era già presente durante il conflitto del Darfur nel 2003, quando le milizie, create dall’ex dittatore al-Bashir per combattere in Darfur, distruggevano villaggi e bruciavano le persone nelle loro case. Come società civile, dobbiamo riconoscere queste milizie come terroristi e bandirle dalla comunità internazionale. Dobbiamo congelare i loro conti correnti, vietare loro di viaggiare e trattarli come terroristi. Tuttavia, attualmente, le milizie viaggiano liberamente e dispongono di fondi illimitati. Nonostante alcuni tentativi di bloccare i loro fondi, non è stato fatto nulla di concreto. Le milizie si considerano allo stesso livello dell’esercito regolare, ma non possiamo metterle sullo stesso piano. Così facendo, non fanno altro che complicare ulteriormente sia alla negoziazione per mettere fine alla guerra che la transizione democratica in Sudan. È essenziale vietare loro di ricevere armi e farle bandire dalla comunità internazionale per evitare di prolungare ulteriormente la guerra.
Secondo lei, perché la guerra in Sudan ha ricevuto così poca copertura mediatica rispetto ad altri conflitti e in che misura questa mancanza di copertura mediatica l’ha influenzata?
La guerra in Ucraina e il conflitto di Gaza hanno messo in ombra la crisi del Sudan nel mainstream, poiché le notizie vengono selezionate in base agli interessi degli Stati Uniti e dell’Europa. Di conseguenza, le atrocità in Sudan non ricevono la necessaria attenzione da parte dei media. Inoltre, alcuni paesi influenti, come gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, i quali hanno un forte controllo sui media internazionali, impediscono la diffusione di notizie negative che li coinvolgono. Questo schema si ripete anche in altri conflitti, vedi Libia e Yemen. La paura dei giornalisti di menzionare questi paesi, unita alla distanza geografica e alla percezione di indifferenza da parte dell’Europa, contribuisce a tenere il Sudan lontano dai riflettori. L’Europa mantiene inoltre un atteggiamento colonialistico nei confronti dell’Africa, interessandosi solo alle risorse naturali e non alla popolazione locale. Questo approccio include anche la vendita di armi, per il profitto delle aziende europee. L’Europa ha avuto un ruolo diretto nella formazione delle milizie in Sudan, finanziandole per combattere l’immigrazione clandestina e il traffico di esseri umani. Queste milizie, attive non solo in Sudan ma anche in Niger, Mali e Ciad, sono diventate più potenti grazie ai milioni di euro forniti dall’Unione Europea e dall’Italia. Sebbene l’Europa abbia contribuito a questo problema, non sembra intenzionata a risolverlo. Nel 2019, i movimenti femministi globali hanno dato un grande sostegno alle donne sudanesi durante le manifestazioni contro al-Bashir.
Perché questi movimenti sembrano rimanere in silenzio nella crisi attuale?
Il modo coloniale di vedere l’Africa come un continente di primitivi violenti è un problema persistente. Ho notato che durante la Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne si parla delle violenze subite da loro in varie parti del mondo, ma raramente viene fatta attenzione alle donne sudanesi. I movimenti femministi spesso non menzionano la violenza contro le donne sudanesi, in quanto queste notizie non vengono riportate dai telegiornali o dai mass media. Se pubblichi un post su Facebook riguardante il Sudan o il Sud Sudan, non viene messo in evidenza. Ci sono molte notizie che i sudanesi condividono sui social media, ma non ottengono visibilità a causa dei loro algoritmi. Durante la rivoluzione sudanese, le notizie hanno avuto copertura internazionale perché non c’erano né conflitti in Ucraina, né a Gaza e tantomeno problemi elettorali negli Stati Uniti. Era un momento proficuo e le donne sudanesi hanno potuto godere di sostegno internazionale. Oltretutto, la rivoluzione da loro guidata era pacifica: una lezione per il mondo intero. Quando un presidente, come il presidente francese, afferma che il Sudan o le donne sudanesi hanno insegnato la non violenza, ciò porta visibilità alla causa. Tuttavia, attualmente giornali e leader mondiali non parlano più del Sudan perché ci sono altre questioni, come i conflitti a Gaza e in Ucraina, considerate più urgenti. Riflettendo su questo, fermare la guerra in Sudan è di interesse globale. Il Sudan è un Paese strategico situato nell’Africa Nord-orientale e sul Mar Rosso, con paesi confinanti che potrebbero essere coinvolti in un conflitto regionale. Per esempio, la Russia, ha potuto affrontare le sanzioni occidentali grazie all’oro del Sudan, dimostrando l’importanza internazionale del paese, sebbene non sia riconosciuta a livello globale.
Quali iniziative specifiche state prendendo voi sudanesi che vivete in Italia per fornire sostegno e assistenza ai vostri connazionali colpiti dalle conseguenze della guerra?
Come sudanesi, abbiamo creato un’organizzazione chiamata Global Aid Connection. L’obiettivo di questa organizzazione è mobilitare tutte le diaspore sudanesi presenti in Europa per fornire aiuti umanitari ai rifugiati sfollati in Sudan. Inoltre, vogliamo sensibilizzare i politici europei sul conflitto sudanese, facendo advocacy e intensificando la diffusione di notizie per trovare soluzioni a questo conflitto. Lavoriamo anche per costruire la pace e promuovere lo sviluppo sostenibile anche dopo la guerra. Cerchiamo di produrre un cambiamento significativo e riconosciamo che, se non agiamo noi stessi, nulla si muoverà. Per questo motivo, stiamo facendo del nostro meglio.
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