L’editoriale/ Contributi ai partiti, le ipocrisie da superare

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Sul tema del finanziamento ai partiti in Italia si ragiona quasi sempre sulla base di un’ambigua miscela di ipocrisia e illusione.

L’ipocrisia è presto detta. I partiti, essendo macchine organizzative, hanno costi di funzionamento ordinari che, anche oggi che sono diventanti meno burocratici, difficilmente possono essere coperti dalle tessere degli iscritti o dai contribuiti dei militanti.

Non parliamo poi di quelli necessari ad affrontare le campagne elettorali, che anche se divenute potenzialmente meno dispendiose grazie ai social media richiedono pur sempre notevoli risorse finanziarie.

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Dunque: dove prendere, lecitamente, i soldi che non si hanno e di cui si ha bisogno? Nell’Italia odierna, ancora fortemente intrisa di demagogia antipolitica, nessun leader di partito ha il coraggio di dire pubblicamente che la democrazia ha un costo che la collettività dovrebbe sostenere nel suo stesso interesse.

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Una mancanza di coraggio che spiega il sotterfugio parlamentare con il quale nei giorni scorsi la maggioranza e parte dell’opposizione hanno cercato, attraverso un emendamento al decreto fiscale votato di comune d’intesa, di accrescere i fondi ai partiti provenienti dalla quota dell’Irpef che ogni cittadino può liberamente destinare a un partito. Un concentrato di ingenuità, furbizia e, appunto, ipocrisia che è stato ritenuto inopportuno dal Capo dello Stato e dunque bloccato.

In Italia, dopo l’abolizione per legge nel 2014 di ogni forma di finanziamento pubblico diretto da parte dello Stato, sono rimasti attivi tre canali di sostegno economico ai partiti: i contributi ai gruppi parlamentari da parte del Parlamento; il meccanismo del 2 per mille dell’imposta sul reddito; le erogazioni liberali dei privati.
A questo meccanismo misto, che ha determinato una contrazione drastica dei soldi nelle casse dei partiti rispetto al passato, si è arrivati come è noto a colpi di referendum, leggi e decreti con l’idea di moralizzare la vita pubblica dopo gli scandali per corruzione e le inchieste giudiziarie che avevano causato la fine della cosiddetta Prima Repubblica.

Ma è un meccanismo che, come oggi riconoscono anche coloro che a suo tempo sono stati convinti sostenitori dell’abrogazione del finanziamento pubblico, non ha funzionato rispetto alle attese.

Si è visto, infatti, che i contribuenti che destinano il loro 2 per mille ai partiti sono meno del 5%: in crescita negli ultimi anni ma ancora troppo pochi. Così come sono davvero poca cosa le donazioni operate dai privati, persone fisiche o giuridiche, che pure sulla carta potrebbero avvantaggiarsi di una detrazione del 26 per cento. Con le normative vigenti il rischio di veder scambiata la propria liberalità per un finanziamento illecito o per una forma di traffico d’influenza è davvero troppo alto, come dimostrano molti recenti casi di cronaca.

Dare meno soldi ai partiti, ammesso abbia posto un freno alla corruzione politica, in realtà li ha resi più deboli nei confronti degli attori extrapolitici e dei cospicui interessi rappresentati da questi ultimi. Li ha costretti inoltre a cooptare nei propri ranghi, sempre più spesso, personale politico in grado di affrontare con le proprie risorse i costi di una campagna elettorale e, in generale, ogni possibile forma di attività politica. Soprattutto, non ha impedito che, da un’elezione all’altra, diminuisse sempre più drasticamente la partecipazione al voto. Insomma, la riduzione dei trasferimenti pubblici ai partiti non ha migliorato la qualità della democrazia italiana, tanto meno ha inciso sulla loro funzionalità.

Da qui l’idea, ma per farlo ci vorrebbe una discussione alla luce del sole senza più finzioni o falsi moralismi, che sia utile tornare a una qualche forma di finanziamento pubblico diretto, se davvero si è convinti che i partiti siano gli attori indispensabili nella vita dei regimi democratici. A meno di non immaginare l’evoluzione di questo ultimi verso un modello di stampo plutocratico-oligarchico nei quali il consenso politico finisce per discendere della ricchezza privata di chi lo compra o l’orienta.

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Ma accanto all’ipocrisia da combattere c’è anche, come abbiamo detto, un’illusione alla quale non cedere. Illusione doppia, con riferimento ai partiti per come nel frattempo si sono trasformati.
Da un lato, dare soldi pubblici ai partiti a misura delle loro esigenze reali cosa in sé giusta e necessaria non li farà tornare a ciò che sono stati in passato dal punto di vista della pedagogia politica e civile. Le sezioni e il radicamento territoriale, le scuole di formazione, la stampa di partito, le strutture associative parallele, le grandi feste di popolo, l’impegno militante destinato a durare una vita intera, le incrollabili e fideistiche certezze ideologiche, la fedeltà alla causa: questo modello di partito è finito col Novecento. Che possa tornare è appunto un’illusione.

Dall’altro, come diretta conseguenza, c’è da sapere, senza appunto farsi illusioni falsamente idealistiche, che dare soldi ai partiti significa oggi darli a strutture che sono divenute sempre più personalistiche e verticistiche, nelle quali riesce persino difficile immaginare un avvicendamento al comando secondo i tradizionali meccanismi congressuali, nelle quali persino l’opposizione delle minoranze interne viene spesso poco tollerata.
Insomma, se la democrazia ha bisogno dei partiti e i partiti hanno bisogno di essere pubblicamente finanziati per svolgere al meglio le loro funzioni, i cittadini, dal canto loro, hanno bisogno di partiti autenticamente democratici, partecipativi e aperti al confronto. Un caso classico di quadratura del cerchio?

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