Dopo anni di proposte e dibattiti, nel mese di aprile il Parlamento europeo ha approvato il nuovo “Patto sulla Migrazione e l’Asilo”, esito di un lungo processo di riforma delle vecchie regole comuni in materia di asilo, anche note come “Sistema di Dublino”.
Il nuovo sistema di gestione del fenomeno migratorio è stato immediatamente oggetto di pesanti critiche da parte di numerose organizzazioni non governative, le quali hanno definito le nuove disposizioni come “mal concepite e crudeli”, dal momento che sembrano aumentare le probabilità di lunghe detenzioni alla frontiera, a cui si aggiunge una gestione più rapida (e dunque più sommaria) delle richieste di asilo, a discapito del principio di non respingimento (il principio di non-refoulement) che si pone alla base del diritto internazionale. Nel valutare una richiesta di protezione internazionale, non è infatti possibile negare la protezione e dunque respingere una persona qualora vi sia il rischio che possa essere soggetta a tortura o altri trattamenti inumani e degradanti.
Willy Bergogné, direttore e rappresentante di Save the Children Europe, ha espresso una chiara presa di posizione circa l’adozione del nuovo Patto:
“È chiaro che il Parlamento europeo ha dato priorità alla limitazione dell’accesso all’Europa rispetto alla protezione urgente dei minori vulnerabili in fuga da conflitti, persecuzioni, fame, matrimoni forzati e povertà estrema. Con l’approvazione di questo provvedimento esiste il rischio concreto che le famiglie, anche quelle che viaggiano con bambini molto piccoli, finiscano per trascorrere settimane o mesi nei centri di detenzione”.
Per comprendere meglio come sia stato possibile pervenire ad un tale esito, è necessario ripercorrere la storia dell’approccio europeo alle migrazioni, fin da subito problematico e soggetto ai diversi orientamenti degli Stati europei.
La materia dell’asilo è disciplinata all’interno dello “Spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, uno dei settori più giovani del diritto dell’Unione europea.
In particolare, ad esso è dedicato il Titolo V del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, il cui Articolo 78 prevede che: “L’Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento. Detta politica deve essere conforme alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e al Protocollo del 31 gennaio 1967 relativi allo status dei rifugiati, e agli altri trattati pertinenti”.
Nell’ambito dell’Articolo 78, l’Unione europea adotta dunque misure innanzitutto volte a definire quali sono gli status giuridici che ricadono nell’ambito della protezione internazionale.
La protezione internazionale viene concessa qualora vengano rinvenute ragioni di persecuzione: in particolare, chi si sposta verso un altro Stato ritiene che il proprio paese non voglia o non disponga dei mezzi per proteggerlo da tale forma di persecuzione. In una simile situazione, chi fugge solitamente giunge nel paese di destinazione attraverso vie illegali.
Comunemente, nel diritto dell’Unione europea, ciò che riguarda la protezione internazionale viene definito come “Sistema comune d’asilo” e ricomprende tre status: asilo, protezione sussidiaria e protezione temporanea.
Le direttive fondamentali che trovano applicazione in tale contesto sono tre, ciascuna delle quali disciplina un differente aspetto della materia.
La Direttiva qualifiche è finalizzata ad indicare quali siano gli status giuridici che possono essere riconosciuti alle persone che presentano domanda di protezione internazionale. A livello europeo, infatti, risulta necessario che le nozioni di “rifugiato” e gli status giuridici relativi alla protezione internazionale siano i medesimi in tutti gli Stati membri dell’Unione.
La Direttiva procedure stabilisce l’iter burocratico che ogni Stato membro deve seguire per trattare le richieste di protezione internazionale. In particolare, a livello europeo le procedure per richiedere e ottenere la protezione internazionale devono essere uniformi.
La Direttiva accoglienza, infine, elenca delle norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale nei paesi dell’Unione, come alcuni obblighi in materia di informazione circa il rilascio dei documenti, l’accesso all’istruzione per i minori e le opportunità di accesso al mondo del lavoro.
La politica comune in materia di asilo dell’Unione europea ha quindi come obiettivo quello di offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo o apolide che necessiti di protezione internazionale nonché garantire il principio di non respingimento.
Risulta importante sottolineare come esista, in seno all’ordinamento europeo, anche lo status di “beneficiario di protezione sussidiaria o temporanea”.
Ai sensi della Direttiva qualifiche, la protezione sussidiaria viene garantita a coloro i quali non soddisfano i requisiti per essere riconosciuti come rifugiati ma comunque necessitano di protezione internazionale in quanto esposti ad un danno grave (come la pena di morte, le esecuzioni, la tortura e i trattamenti inumani e degradanti oppure la minaccia grave e individuale derivante da violenza indiscriminata in conflitti armati interni o internazionali). La protezione temporanea, invece, è stata applicata per la prima volta nel 2022 nei confronti dei cittadini ucraini in fuga dalla guerra di aggressione della Federazione russa.
Infine, risulta fondamentale determinare lo Stato membro competente al trattamento di una richiesta di protezione internazionale. Nel momento in cui una persona arriva nell’Unione europea e presenta una richiesta di protezione internazionale, infatti, deve essere chiaro quale sia il paese dell’Unione incaricato di valutare tale richiesta.
Questo sistema inizialmente era regolato attraverso un trattato internazionale, la Convenzione di Dublino del 1991 (la quale non esiste più); la materia è poi stata regolata dal diritto dell’Unione e, in particolare, dal più recente “Regolamento Dublino III”.
Il sistema di Dublino è stato creato nel quadro di un processo di armonizzazione delle politiche degli Stati europei in materia di asilo: per anni, il Regolamento di Dublino ha disciplinato la procedura tramite la quale era possibile richiedere lo status di rifugiato.
La principale finalità perseguita era essenzialmente una: assicurare che un solo paese europeo fosse responsabile della gestione di una domanda di asilo. Un simile sistema ha creato dunque un rapido cortocircuito, dal momento che la maggior parte delle domande di asilo sono state notificate agli Stati di primo ingresso (principalmente Italia e Grecia), i cui sistemi burocratici hanno fin da subito faticato a gestire una mole così imponente di richieste.
Nello specifico, il vero elemento di controversia del Regolamento Dublino III riguarda proprio lo “Stato di primo ingresso”, un aspetto che per anni non si è riusciti a modificare, forse anche a causa dei numerosi tentativi degli Stati di aggirare la questione.
La stragrande maggioranza delle richieste di protezione internazionale viene infatti processata dallo Stato di primo ingresso: questa situazione ha generato problemi in quanto alcuni paesi, per la loro posizione geografica, facilmente sono stati considerati paesi nei quali i rifugiati effettuano il loro primo ingresso.
L’Articolo 78, paragrafo tre, è stato attuato una sola volta con le “ricollocazioni”. In particolare, nel 2015 si decise che una parte dei richiedenti protezione internazionale arrivati in Italia e in Grecia dovevano essere ricollocati verso altri Stati membri per evitare una situazione di sovraffollamento negli Stati di primo ingresso.
Da tempo, il Sistema di Dublino ha dunque mostrato delle crepe evidenti. Tra persistenti opposizioni di alcuni paesi che hanno bloccato per anni qualsiasi progetto di riforma e un costante richiamo alla necessità di riformare il sistema comune di asilo, nell’aprile del 2023 è stato approvato il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo, il quale sembra lasciare maggiore margine di discrezionalità ai paesi membri, anche a discapito di quel principio di solidarietà posto alla base delle relazioni tra gli Stati dell’Unione.
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