Ritorno sull’investimento della lettura. Il libro del mese di ROI Edizioni, idee di management e per crescere.
Per chi ama lo sport, e la pallavolo in particolare, Pasquale Gravina non ha bisogno di presentazioni. In carriera, ha vinto 34 titoli: 21 di club e 13 con la maglia della Nazionale. Ha fatto parte della squadra più vittoriosa di sempre, che negli anni Novanta ha conquistato, tra i vari trofei, tre campionati mondiali consecutivi. Questo team, allenato anche da Julio Velasco, è noto come “generazione di fenomeni” (anche se la definizione a lui non piace e vedremo perché). A fine carriera, Gravina si è più volte reinventato, sempre con successo.
Una vita sempre in movimento: 18 traslochi, sei lavori diversi. Qual è il suo segreto?
«Questa mia confusa vitalità nasce dal bisogno di rispondere all’ormai proverbiale curiosità, talvolta in contenibile, che mi alimenta. Mi definisco a tutti gli effetti un’anomalia, un campo di battaglia».
Lei, che ha cambiato spesso, quali consigli dà ai manager per gestire il cambiamento?
«Più che di cambiamento, mi piace parlare di evoluzione. Il cambiamento fa pensare al disconoscimento di ciò che si è stati prima, mentre l’evoluzione parte da ciò che eravamo prima e ci aggiunge qualcosa di nuovo. Come i manager sanno bene, l’evoluzione è inevitabile. Il cambiamento vive di tre livelli: lo subisci (cambi, ma non migliori), lo accetti (cogli le opportunità e migliori), lo abbracci (ciò che vivi diventa parte del tuo patrimonio). È vero che ci sono persone conservatrici, che vogliono mantenere ciò che hanno raggiunto, illudendosi che l’inerzia funzioni. Ma chi ha delle responsabilità sa bene che essere stabili è una condizione illusoria e velleitaria».
Che cosa rischia chi si ferma?
«Chi si trova a suo agio in una dimensione di stabilità sta già affrontando una sconfitta silenziosa. Sta perdendo terreno, ma senza accorgersene, e quando se ne renderà conto sarà troppo tardi».
Nel suo libro fa una distinzione tra vincitore e vincente.
«Vincere è solitamente la combinazione di duro lavoro, talento e giusta opportunità. A volte, semplicemente, capita. Ma vincere non significa essere vincenti, significa aver vinto. Il vincente viene definito, oltre che dal risultato, dalla modalità e dalla frequenza. Il vincente sale sullo stesso treno e compie lo stesso tragitto, magari scegliendo di salire e scendere alle stesse fermate. Con una differenza sostanziale: lascia un segno durante il percorso che contribuisce ad arricchire il suo viaggio e quello dei passeggeri che incontra, cambiando l’esperienza di quel treno. Contribuisce, in definitiva, all’evoluzione o definizione di un nuovo standard di settore, cosa che il vincitore non sarà mai in grado di fare».
Che cosa insegna lo sport al mondo dell’azienda?
«Molte cose. Ma quella forse più importante è la necessità di allenarsi. E l’allenamento, in azienda, è rappresentato dalla formazione. Nello sport l’allenamento è la strada maestra, percorsa ogni giorno. Nel business l’allenamento è meno frequente. Il tempo che un manager impiega ad “allenarsi” è poco. Per ciò è necessario che, quando ci si forma, ci sia il massimo coinvolgimento e la massima qualità».
Come affrontare sconfitte e difficoltà?
«Auguro sempre le difficoltà e ho anche cercato di crearle ai miei figli, quando non c’erano. Rappresentano, infatti, la strada migliore per attingere alle proprie risorse. Se la vita fosse una sequenza di eventi che rispecchiano le nostre aspettative, sarebbe di una noia mortale. Non solo, non ci farebbe attingere al cofanetto delle nostre qualità. Ogni difficoltà dischiude le porte del miglioramento».
Come affrontare invece le vittorie?
«Tutti gestiscono le sconfitte e pochi le vittorie. Nello sport, è chiaro che i nostri avversari imparano dalle nostre vittorie e si preparano a fronteggiarci meglio. Per questo è importante celebrare i trionfi, senza però darli per scontati. Ma è anche fondamentale confrontarsi su ciò che si sarebbe potuto fare per andare ancora meglio. Questa è la base su cui costruire future vittorie».
Parliamo di leadership.
«Al di là dei vari stili, può essere di due tipi: tecnica e carismatica. Eserciti la leadership tecnica sulla base delle conoscenze specifiche, che si possono acquisire. Il carisma, invece, è una dote che viene da lontano. Non si può lavorare sul carisma: o ce l’hai o non ce l’hai. Il carisma potenzia le competenze tecniche. Un leader carismatico fa vedere al proprio team il quadro più ampio del compito che deve svolgere e inserisce quell’obiettivo all’interno di un racconto potente e coinvolgente in cui immedesimarsi».
Perché non le piace la definizione “generazione di fenomeni”?
«Mediaticamente era efficace, non a caso sopravvive ancora oggi. Per me, però, fa passare due messaggi sbagliati. Il primo, sembra che per ottenere grandi risultati occorra essere dei fenomeni, baciati dalla fortuna, quando invece dietro c’è un lavoro gigantesco. Il secondo, trasferisce il messaggio secondo il quale talento equivale automaticamente a successo. E invece non è vero: il mondo è pieno di gente di talento che non ha successo».
Rifarebbe tutto?
«Credo che avere dei rimpianti sia per gli animi modesti. Possiamo compiere scelte che si rivelano sbagliate, ma anche gli errori commessi diventano parte di ciò che siamo».
Appese le scarpette al chiodo, affetti a parte, ha ritrovato quell’adrenalina che le dava la pallavolo?
«Non ho rimpianti. Ho fatto quello che dovevo fare, ma non ho mai provato di nuovo quelle sensazioni. Impossibile».
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