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Il capitolo XXIII del Libro dei Morti di Torino, intitolato Formula per aprire la bocca di una persona nella Necropoli, si apre dunque con un auspicio che sembra essere stato previsto per qualcuno che fosse stato da sempre afflitto da una difficoltà nel parlare:
Che la mia bocca sia aperta da Ptah, e che Ammon, dio della mia città, disserri le pastoie della mia bocca da quando sono uscito dal ventre di mia madre.
Il defunto si rivolge quindi, prima che ad Ammon, al dio cosmico patrono della voce e della parola. Nel Libro dell’Esodo, quando Mosè sente provenire dal roveto ardente la voce di YHWH che lo incarica di parlare al Faraone affinché lasci andare gli Ebrei fuori dall’Egitto, l’uomo risponde:
Mio Signore, io non sono un buon parlatore, non lo sono mai stato prima […] sono impacciato di bocca e di lingua (Esodo, 4, 10).
E in seguito, dopo il primo «no» del faraone e il malcontento degli Ebrei:
«Ecco, gli Israeliti non mi hanno ascoltato: come vorrà ascoltarmi il faraone, mentre io ho la parola impacciata?» […] Mosè disse alla presenza del Signore: «Ecco, ho la parola impacciata, come il faraone vorrà ascoltarmi?» (Esodo, 6, 12; 30).
È relativamente nota la tradizione, basata su queste frasi, secondo la quale Mosè sarebbe stato balbuziente o portatore di un difetto di pronuncia fin da bambino. Secondo l’Esodo, Mosè nacque durante l’eliminazione di una quantità di neonati ebrei maschi decretata dal faraone: un evento storicamente controverso, ma non impossibile. Se, come abbiamo ipotizzato nella prima parte, Mosè nacque verosimilmente verso il 1305 a. C. [39], il faraone dell’infanticidio risulterebbe l’ex generale Horemheb, regnante forse dal 1319 e morto nel 1292 a. C.. Questo re decretò la damnatio memoriae di Amenhotep (o Amenofi) IV Akhenaton (1357-1335), padre di Tutankhamon e instauratore della monolatria solare di Aton: non sarebbe quindi assurdo che Horemheb abbia voluto scoraggiare ogni possibile ritorno monoteistico tra gli Egiziani anche con questo sanguinoso deterrente; da parte loro, gli Ebrei, prevalentemente monoteisti, apparivano “pericolosi”. In questa situazione, la madre di Mosè, Yocabed, riuscì a tenere nascosto il figlio per tre mesi (Esodo, 2, 2), e ciò potrebbe indicarci indirettamente che il bambino aveva qualche problema di fonazione: un neonato che non vagisce e non piange come gli altri, ma con voce più bassa o in modo stentato, è meno facile da localizzare [40]. Non avrebbe quindi senso sostenere che le parole di Mosè gli sarebbero state attribuite da un autore che “riciclò” quelle del Libro dei Morti, ma il confronto è interessante.
Mosè fu quindi allevato dalla «figlia del Faraone» – ricordata solo dall’Esodo e dal Primo Libro delle Cronache (4, 18) non col nome egizio, che ci è sconosciuto, ma con quello ebraico Bitia o Bityà («figlia di YHWH») – mentre sua madre Yocabed, col ruolo di balia, lo allattava (Esodo, 2, 5-10). Trascorse dunque i primi 25-30 anni di vita intorno ai faraoni Horemheb, Ramses I e Seti I (circa dal 1305 al 1280 a. C.) evidentemente senza che nessuno sospettasse la sua origine ebraica, e perciò divenne «un uomo assai considerato nel paese d’Egitto, agli occhi dei ministri del Faraone e del popolo» (Esodo, 11, 3), «istruito in tutta la scienza degli Egiziani [e] potente nelle parole e nelle opere» (Atti degli Apostoli, 7, 22). Un aspetto tecnico di tale istruzione potrebbe essere la costruzione dell’Arca dell’Alleanza, la celebre teca portatile – le cui misure erano state stabilite con il «cubito reale» (circa 52 cm) usato in Egitto per le costruzioni sacre – in cui, dopo l’uscita dall’Egitto, Mosè depositò le due Tavole di pietra con incise le Dieci Parole, o Dieci Comandamenti. L’Arca era in legno di acacia rivestito di lamina d’oro dentro e fuori (Esodo 25, 10-11).
Di questa tecnica c’è appunto una traccia nel capitolo CLV del Libro dei Morti (Formula per il Djed d’oro da porsi al collo del defunto), riguardante un amuleto a forma di colonnina Djed, il famoso oggetto simbolico (sovente scolpito in pietra dura) che unisce le immagini della colonna vertebrale di Osiride e dell’albero sfrondato: entrambi simboli dell’axis mundi, la congiunzione dei vari livelli del cosmo (le colonne Djed ne hanno da tre a cinque) garantita dal rappresentante dell’ordine cosmico e politico, cioè il Faraone [41]. La Rubrica a questo capitolo inizia infatti con la prescrizione: «A dirsi sopra un Djed d’oro scolpito nel midollo del sicomoro» [42], cioè nel legno di una pianta citata anch’essa nella Bibbia (ad esempio nel Libro di Amos 7, 14-15, e nel Vangelo secondo Luca, 19, 4) ricoperto di quella che oggi chiameremmo foglia d’oro. Non è quindi assurdo pensare che Mosè potesse esprimersi con frasi simili a quelle che aveva ascoltato dai sacerdoti, dagli scribi, dagli architetti-matematici e dai «maghi» di corte egizi, dei quali conosceva le pratiche, come indicano gli episodi dei bastoni trasformati in serpenti (Esodo 7, 8-13) e quelli delle «piaghe d’Egitto» (eventi accaduti durante l’intero periodo di stanziamento ebraico in Egitto, ma “compressi” e posticipati dalla narrazione ebraica alla sola epoca di Mosè) [43].
Nel capitolo XLII (Formula per respingere ogni male e per respingere le ferite che vengono fatte nella Necropoli), il defunto, in quanto assimilato alla Divinità e ora facente parte di essa, è definito «la forza [letteralmente «la muraglia»] che procede dalla forza, l’Uno che procede dall’Uno» [44]: una definizione che sembra quasi tratta da qualche testo gnostico o neoplatonico, ma ricorda anche le formule del Credo cristiano nella forma del Simbolo niceno-costantinopolitano (stabilita nell’anno 325) che definisce il Cristo «Luce da Luce; Dio vero da Dio vero; generato, non creato; della stessa sostanza del Padre». Nel capitolo successivo, il XLIII (Formula per non far togliere la testa di un uomo dalla Necropoli), la voce del defunto esordisce in modo simile: «Io sono il Grande [Wr] figlio del Grande, la Fiamma figlia della Fiamma…» [45]. Nel capitolo CXV (Formula per uscire in Cielo, per penetrare l’Ammahit [?] e per conoscere gli Spiriti di Heliopolis) il defunto, durante la sua dichiarazione ultraterrena, racconta brevemente un mito (l’origine della «Treccia del fanciullo», la caratteristica acconciatura dei ragazzini egizi con una treccia su un lato del cranio rasato fino al raggiungimento della maggiore età) includendo questa frase: «L’attivo in Heliopolis, l’erede dell’erede, è l’Onniveggente, perché egli ha la potenza divina come Figlio generato dal Padre» [46]. Nonostante il contesto sia molto differente, queste parole appaiono di nuovo molto “cristiane”, ricordando il concetto della identità sostanziale (omousia) tra il Dio Padre e il Cristo Figlio:
Il Padre ama il Figlio e gli ha dato nelle mani ogni cosa (Vangelo secondo Giovanni, 3, 35);
Come il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso, e gli ha dato il potere di giudicare (5, 26-27);
Io e il Padre siamo una cosa sola […] Il Padre è in me e io sono nel Padre (10, 30; 38);
Il Padre che è in me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me (14, 10-11).
Il Cristianesimo nacque in seno al Giudaismo, il quale – lo stiamo vedendo – non è totalmente scevro di legami con alcuni elementi egizi, ma non comprende nessuna concezione di figliolanza divina o di identità di Dio con le altre creature, nemmeno il Messia; è quindi da escludere che i primi cristiani, quasi tutti ebrei, si siano appropriati di un concetto egizio e lo abbiano rielaborato.
Nel capitolo LXXXV (Formula per trasformarsi in Anima [«Ba»] e per evitare di entrare nella Sala di Torture) il defunto divinizzato si esprime ancora in modo tale da richiamare alla mente il linguaggio dei Vangeli:
Io sono il Signore della Verità, e vivo per mezzo di essa. Io sono il Cibo Divino che non perisce […]. Io sono la Luce, e ciò che detesto è la Morte. [47]
Confrontiamo con alcune frasi analoghe di Gesù dal Vangelo secondo Giovanni:
Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo. […] Io sono il pane della vita: chi viene a me non avrà più fame […]. Sono disceso dal cielo per fare non la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato. […] Io sono il pane della vita. […] Io sono il pane vivo, disceso dal cielo: chi mangia di questo pane vivrà in eterno (6, 33-38; 48-51);
Io sono la luce del mondo (8, 12);
Io sono la via, la verità e la vita (14, 6).
Nel capitolo XXXIX, intitolato Formula per respingere il serpente Refref nella Necropoli, compare l’antichissima immagine del serpente nel suo aspetto malefico, che sarà determinante in ambito giudaico-cristiano come immagine per eccellenza del diavolo, l’avversario – in ebraico satan – di Dio. Il defunto, forte della propria assimilazione agli dèi (in questo caso a Ra), lo affronta intimandogli:
Arretra!, Camminatore che viene respinto, proveniente da Apep [drago-serpente mitologico]! Sii sommerso nel lago del Nu, nel luogo stabilito da tuo padre per la tua distruzione. […] Arretra! Si distrugge il tuo veleno! Ra ti ha abbattuto e la tua testa è rovesciata dagli dèi […] mentre Maat ha ordinato la tua distruzione. […] O detestato da Ra, […] Non provenga alcuna cattiveria contro di me dalla tua bocca in ciò che tu fai a me! [48]
Similmente, nel capitolo CVIII (Formula per conoscere gli Spiriti dell’Amenti, ossia le entità demoniache – «bau» – dell’«Occidente», cioè dell’Oltretomba) si legge nei confronti di Set, la divinità personificante le forze del caos, che in questo caso è figura di sintesi di tutti gli spiriti maligni:
Set è posto nella sua prigione e una catena di ferro è posta sul suo collo, ed è obbligato a vomitare tutto ciò che aveva ingoiato. […] Arretra!, davanti all’Osiride Ieuf-Ankh giustificato […] L’Osiride Ieuf-Ankh giustificato cammina veramente su di te […] Tu sei in ceppi [variante: «sei perforato da arpioni»] come è stato ordinato alla presenza di Ra [49].
Un altro insieme di scongiuri di questo genere è presente nel capitolo CXLIX (senza titolo), dove torna il serpente:
È ivi un serpente, Rerek è il suo nome. È lungo sette cubiti sulla sua schiena e vive dei Glorificati [i defunti], annientando il loro akh [«potere magico»]. Arretra!, o Rerek, quando mordi con la tua bocca […] e indebolisci con i tuoi occhi. I tuoi denti ti vengono strappati e tu rigetti il tuo veleno! Tu non verrai contro di me, e il tuo veleno non penetrerà in me per paralizzarmi, ma giacerà inoffensivo in questa terra. [50]
Il lettore potrebbe avere già intuìto quale sia, in questo caso, il parallelismo concettuale e linguistico relativamente possibile tra il Libro dei Morti e la tradizione giudaico-cristiana: queste frasi possono ricordare infatti alcune «formule imperative» nell’esorcismo contro Satana nella forma codificata dalla Chiesa cattolica (basandosi su alcuni esorcismi effettuati da Gesù stesso):
Io ti espello, spirito impuro, e insieme a te scaccio ogni satanico potere del Nemico, ogni spettro dell’inferno e tutti i tuoi feroci compagni! Nel nome di nostro Signore Gesù Cristo, vattene, e sta’ lontano da questa creatura di Dio!
Ti ordino, serpente maledetto: nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, abbandona questa creatura e ritirati da lei! Te lo comanda Cristo, che dall’alto della sua potenza ti ha fatto sprofondare nelle tenebre eterne! [51].
Nel capitolo CIX (Formula per conoscere gli Spiriti dell’Oriente) troviamo una espressione che ricorda di nuovo l’Apocalisse, cioè la definizione dell’annientamento ultraterreno come «seconda morte»: «Ciò che detesto è la Seconda Morte» [52]. Nella Rubrica in calce al capitolo CXXX (Formula per rendere vivente l’Anima nell’eternità, facendola salire sulla Barca di Ra, ecc.) si legge poi:
Egli starà insieme alla sua anima e vivrà in eterno, non morirà una seconda volta nella Necropoli, e nessun male gli accadrà nel giorno della «Pesatura delle parole». E le sue parole saranno Verità sui suoi nemici… [53]
E nella Rubrica a seguito del capitolo CLIII: «La sua anima sarà vivente per l’eternità e non morirà una seconda volta» [54]. Confrontiamo con l’Apocalisse [55]:
Il vincitore [sulle forze del Male] non sarà colpito dalla seconda morte (2, 11);
Beati e santi coloro che prendono parte alla prima risurrezione; su di loro non ha potere la seconda morte (20, 6);
… lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. È questa la seconda morte (21, 8).
Dodici secoli più tardi, Francesco d’Assisi userà ancora questa espressione nel celebre Cantico delle creature: «Beati quelli ke [la morte] trovarà ne le Tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farrà male».
Nei circa quattro secoli in cui gli Ebrei vissero in Egitto, verosimilmente essi mantennero viva la propria tradizione religiosa primitiva, centrata su un Dio preminente sui vari dèi delle popolazioni locali, chiamato El (il Dio) e talvolta El Shaddai, «Dio della Montagna»,
secondo l’idea diffusa che localizzava l’abitazione della divinità sulle alte montagne; in questo caso esprimerebbe il concetto del Dio altissimo e trascendente, oppure del Dio stabile come la roccia per coloro che si affidano a lui (cfr. Deuteronomio, 32, 4) [56].
Il nascente monoteismo ebraico trovò quindi probabilmente una sorta di conferma incoraggiante nel monoteismo solare instaurato dal faraone Akhenaton, nel breve periodo in cui tale culto fu vigente e lungo pochi decenni dopo la sua soppressione, ossia negli ultimi anni del secolo XIV a. C. e nei primi del XIII, quando i successori del «faraone eretico» riportarono la religione egizia al politeismo tradizionale: in sostanza, anche durante l’infanzia di Mosè «lo spirito della riforma di Amarna sopravvive[va] in fatti sostanziali della lingua, dell’arte, della teologia» [57]. Un brano del capitolo CXII del Libro dei Morti (Formula per conoscere gli Spiriti di Pu) è estremamente interessante dal punto di vista dei probabili contatti tra i culti solari egizi e la religione ebraica. Nel brano in questione si racconta brevemente un mito – evidentemente ben conosciuto dagli Egizi già secoli prima della redazione del Libro dei Morti di Torino – nel quale il dio solare Horo, figlio di Ra, restò temporaneamente cieco da un occhio:
Ra disse a Horo: «Lasciami vedere ciò che avviene nel tuo occhio oggi». Ed egli lo guardò. Ra disse a Horo: «Guarda dunque a questo maiale nero». Egli lo guardò, e un grave malanno afflisse il suo occhio. Horo disse a Ra: «Ecco, il mio occhio è come se Anubis [in altri testi: «Set»] abbia inferto una ferita nel mio occhio!». E l’ira divorò il suo cuore. Allora Ra disse a quegli dèi: «Il maiale è una abominazione per Horo. Che il suo occhio possa migliorare!». E il porco divenne una grande abominazione. [58]
«Occhio di Horo» era sinonimo del Sole, ma anche un nome poetico dello stesso Egitto, come si sa almeno da uno degli antichi Testi delle Piramidi (scritti sulle pareti interne di alcune piramidi dal 2360 a. C. circa in poi), l’Inno all’Egitto, che inizia con: «Salute a te, Occhio di Horo, che Atum ha ornato perfettamente…» [59]. È allora possibile che, raccontando che Ra guardò nell’occhio del proprio figlio, s’intenda dire che il dio guardò all’intero proprio territorio; dunque il maiale dalle setole nere (ne esistono anche oggi) costituirebbe qualcosa di detestabile per la sua terra. E infatti, nella Rubrica a seguito del capitolo CXXV (Da dirsi su una persona purificata, ecc.), relativamente alle offerte sacrificali di «pani, birra, buoi, oche, incenso per la fiamma e vegetali d’ogni genere» già eseguite, si prescrive:
Allora tu farai un disegno di ciò [del sacrificio], tracciato su un mattone di pura argilla estratta da un campo su cui nessun maiale avrà marciato. [60]
Tale regola in un Libro dei Morti che risale mediamente al V secolo a. C. può essere un indizio del fatto che, nella mentalità egizia, una certa incompatibilità del maiale con l’ambito del Sacro restò anche in epoca tarda, quando i maiali erano talvolta usati al posto dell’aratro per dissodare alcuni terreni coltivabili a sementi [61]. Sappiamo che una delle più caratteristiche e antiche regole di purità (kasheruth) del Giudaismo consiste nel non toccare maiali (vivi o morti) e non mangiare carne di maiale (Levitico, 11, 7-8), norma che non è certo nata dal nulla; è pressoché impossibile che le tribù ebraiche immigrate in Egitto nel periodo dei faraoni di stirpe Hyksos – i «Re pastori» etnicamente affini agli Ebrei entrati violentemente in Egitto nel XVIII secolo a. C. – o almeno i capitribù e quegli ebrei che risultavano più importanti per anzianità o autorità, non abbiano mai avuto frequentazioni con alcuni cittadini egizi, sia comuni sia appartenenti alla classe dirigente [62]. Nella Bibbia, questi contatti possono essere rappresentati dai racconti sull’incontro tra il Faraone e Abramo (Genesi, 12, 10-20), tra suo nipote Giacobbe e un successivo faraone (Genesi, cc. 46-47) e nella celebre storia di Giuseppe figlio di Giacobbe.
Le vicende di Giuseppe, venduto dai fratelli e diventato poi «viceré» in Egitto, risalgono verosimilmente agli anni tra il 1750 e il 1650 a. C., cioè il primo secolo del regno Hyksos instaurato nell’Egitto settentrionale dai faraoni detti della XV dinastia. In questo stesso secolo visse quello che è stato definito il probabile «vassallo» di un faraone Hyksos: un re chiamato Meri-wser-Ra Yakub-har, o Iakob-her, in lingua egizia «Amore e potere di Ra, Protetto da Horo» [63]: un nome molto simile a Yahakób (Giacobbe) nella stessa epoca in cui un figlio di Giacobbe (Giuseppe) era «viceré» d’Egitto. Yakub-har e Giuseppe figlio di Giacobbe erano dunque la stessa persona? Giacobbe si trasferì in Egitto (dove ritrovò Giuseppe che nel frattempo era stato elevato a «viceré») nell’estrema vecchiaia (non sapremo forse mai se vi giunse davvero a 130 anni e vi morì a 147, come tramanda il Genesi (cap. 47), con la vista così offuscata da non distinguere i figli che lo accompagnavano (48, 10); e l’occhio e la vista erano connessi al dio Horo. Quindi Meri-wser-Ra Yakub-har potrebbe essere il nome egizio di Giuseppe, formato da un prenome dedicato a Ra e da un nome col quale, in qualche modo, lo si voleva porre sotto la protezione di Horo, dio ferito alla vista, anche perché il faraone poteva ricordare di aver ricevuto una benedizione da suo padre Giacobbe, vegliardo quasi cieco (47, 10). Gli Egiziani potrebbero anche aver notato l’assonanza tra la parola yakub (protetto) e il nome Yahakób; d’altra parte gli Ebrei potrebbero avere interpretato il nome acquisito Yakub-har come forma egizia del patronimico ebraico Ben Yahakób, «Figlio di Giacobbe», con aggiunto il nome di Horo (Har) [64]. Il riferimento al dio falco potrebbe anche legarsi all’intelligenza di Giuseppe, acuta come la vista del rapace: i racconti biblici ne celebrano la saggezza e la dote di saper svelare il significato nascosto dei sogni, e ciò si può connettere al nome pubblico di Giuseppe, col quale il faraone confermò l’alta carica di governo affidatagli: Zafnat-paneah, che in lingua egizia significherebbe «Dice il Dio: “È vivente”» (Genesi, 41, 39-45), ma secondo un’altra opinione, deriverebbe dall’ebraico Tzafun-paneach, «Il nascosto è svelato» [65].
È notevole anche il fatto che la Rubrica egizia implicante l’impurità del maiale e del terreno sul quale il maiale abbia camminato sia stata posta in conclusione alla Formula CXXV, che in un certo senso è il nucleo tematico non solo dell’intero Libro dei Morti, ma anche della stessa dottrina egizia sul giudizio ultraterreno. Il lungo capitolo CXXV, intitolato Testo per entrare nella Sala di Verità e Giustizia [Maat], per separare la persona dai peccati commessi e per vedere il volto degli dèi, è infatti quello in cui è espresso meglio il legame tra la purezza della coscienza dell’individuo e il suo destino nell’Aldilà: una concezione che nell’Ebraismo fu assente fino all’epoca del re Salomone (X secolo a. C.) e oltre. Non si concepiva un giudizio individuale post mortem da parte dell’Entità divina, né una conseguente destinazione dell’anima virtuosa ad una beatitudine eterna, né una condizione di sofferenza o di distruzione in caso di vita malvagia: l’unico Aldilà immaginato era lo Sheòl, «immensa caverna posta nei sotterranei del cosmo», un luogo spoglio e caliginoso in cui buoni e malvagi avrebbero vagato «come ombre», o riposato «assopiti» (refaìm) [66].
L’anima trapassata dell’antico egizio dichiara dunque nel capitolo CXXV, tramite la voce del sacerdote lettore, di non avere la coscienza gravata da cattive azioni; e dalle sue parole emerge la chiarezza del pensiero egizio nell’introspezione e nel discernimento del bene e del male. Dopo un omaggio ai Quarantadue Dèi – le divinità presenti nel tribunale ultraterreno – c’è una prima lunga dichiarazione introduttiva di innocenza, composta da affermazioni quali «Io non ho oppresso i miei consanguinei», «Io non sono stato menzognero» e simili. Si apre quindi una serie di invocazioni, seguite da una dichiarazione d’innocenza, a ognuno dei ventuno dèi in funzione di «Giudici dei Morti»: il numero dei Giudici è lo stesso dei Piloni dell’Aldilà che interrogavano l’anima nella Formula CXLV (si veda la prima parte di questo articolo) e, come i ventuno Piloni, anche i ventuno Giudici vengono chiamati con un nome metaforico-esoterico, talvolta legato alla località del tempio dedicato al loro culto o al suo luogo mitologico; ad esempio:
O tu Narice che appare a Hermopolis: io non sono stato invidioso!
O tu che Guardi Indietro, che appari nel Ro-stau: io non ho ucciso alcun uomo a tradimento!
O tu dagli Occhi di Fuoco che appari in Khem: io non ho frodato!
O tu Frantumatore di Ossa che appari in Het-nen-nesut: io non sono stato un mentitore!
O Vento di Fuoco che appari a Menfi: io non ho rubato cibo!
O Bastet che appari in Shehait: io non ho causato lacrime!
O tu dalla Faccia all’Indietro, che appari nella Caverna: io non ho commesso atti contro natura!
O tu Ady che appari in Heliopolis: io non sono uno che ha parlato a vanvera!
O Uammit che appari nel Luogo dell’Immolazione: io non ho commesso adulterio con una donna sposata!
O Kenememti che appari in Kemenit: io non ho bestemmiato!
O Apportatore di Offerte che appari in Sais: io non agito con violenza!
O tu Signore dei Volti che appari in Nedjet: io non sono stato precipitoso di giudizio!
O Neheb-nefru che appari in Heliopolis: io non ho ridotto le offerte per gli dèi, né ho fatto maltrattare un servo dal suo padrone! [67]
Si nota come alcune di queste professioni d’innocenza riguardino trasgressioni identiche o simili a quelle proibite dai Dieci Comandamenti, trattandosi di colpe letteralmente antiche quanto gli esseri umani e diffuse in tutto il mondo. Segue poi una dichiarazione positiva in terza persona, o pronunciata dal sacerdote lettore, che comprende alcuni gesti – altrettanto universali – di carità e solidarietà espressi con parole simili a quelle del discorso di Gesù sul giudizio dell’umanità alla fine dei tempi (Vangelo secondo Matteo, 25, 35-36: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero nudo e mi avete vestito…»):
Egli ha fatto ciò che è prescritto per gli uomini e di cui gioiscono gli dèi. Egli ha propiziato il dio con ciò che egli ama: ha donato pane all’affamato, acqua all’assetato, vestiti all’ignudo e una imbarcazione a chi ne era privo. Egli ha fatto le offerte agli dèi e le «Uscite alla Voce» per i defunti. Salvatelo, quindi! Proteggetelo, quindi! Non agite contro di lui alla presenza del Signore dei Defunti [Osiride], perché la sua bocca è pura, le sue mani sono pure, egli è un puro, al quale è detto «Benvenuto!» [68]
Infine, un ultimo interrogatorio sulla conoscenza della dimensione metafisica, simile a quello, già visto, della Barca del Nu (Formula XCIX), ma questa volta da parte dei nove elementi architettonici che compongono la Sala della Maat (di seguito alcuni esempi), più un decimo elemento, il Guardiano della Porta, che finalmente conclude il giudizio ultraterreno con l’accettazione del trapassato:
Non ti concedo di passare da me, dice il Chiavistello della Porta, se non dici il mio nome! – «Indice della Bilancia del Luogo di Verità e Giustizia» è il tuo nome!
Non ti concedo di passare da me, dice il Pannello Destro della Porta, se non mi dici il mio nome! – «Difensore di Maat [variante: «Piano della Bilancia di Colui che innalza la Giustizia»]» è il tuo nome!
Non ti concedo di passare da me, dice il Pannello Sinistro della Porta, se non dici il mio nome! – «Difensore del Giudizio di Cuore» è il tuo nome! […]
Non camminerai su di me, dice il Suolo della Sala, perché io sono pulito e perché non conosco il nome dei tuoi due piedi […]. Dimmi dunque i nomi! – «Cintura [?] di Min» è il nome del mio piede destro, «Albero di Neftis» è il nome del mio piede sinistro!
Io non ti annuncerò, dice il Guardiano della Porta, se non dici il mio nome! – «Colui che conosce i Cuori ed Esplora le Persone» è il tuo nome! – Allora ti annuncerò! […] Ma chi è Colui il cui Tetto è di fuoco, i cui Muri sono Urei viventi, il Suolo della cui Dimora è di acqua che scorre? – È Osiride! – Avanza, dunque, poiché sei stato annunciato! […] L’Osiride Ieuf-Ankh figlio di Ta-Shrit-Min è giustificato, per l’eternità! [69]
È molto interessante anche una delle note esplicative che Boris de Rachewiltz ha apposto alla sua traduzione del Libro dei Morti di Torino: relativamente al titolo del capitolo CXXXVII (Formula per non far salire la Fiamma), egli spiega che si tratta di un riferimento a una «importante cerimonia magica» (descritta in altre fonti egizie, citate dall’archeologo) nella quale «le fiamme in questione sono prodotte da torce in stoffa impregnata di unguento, tenute da quattro officianti sulle cui spalle sono inscritti i nomi dei pilastri di Horo» [70]. Si è visto come la concezione del maiale «abominevole», un elemento in comune con l’Ebraismo, fosse legata al dio Horo, il falco solare; in questa descrizione del culto funerario troviamo nuovamente un legame possibile tra Horo e il culto ebraico. Con «pilastri di Horo» si dovrebbero intendere i quattro figli di Horo, detti i Quattro Pilastri del cielo: Amset, Hapi, Duamutef, Kebekhsenuef [71], il nome di ognuno dei quali era scritto, in qualche modo, sulle spalle di ciascuno dei quattro sacerdoti; può esservi quindi un’analogia con i nomi dei figli di Giacobbe (i dodici capostipiti delle tribù di Israele) incisi sulle due pietre inserite nelle spalline dell’efod, la sopravveste sacerdotale indossata da Aronne, primo sommo sacerdote degli Ebrei, e poi dai suoi successori, stando a ciò che Dio – secondo la Bibbia – aveva ordinato a Mosè:
Prenderai due pietre di onice e inciderai su di esse i nomi degli Israeliti: sei dei loro nomi sulla prima pietra e gli altri sei nomi sulla seconda pietra, in ordine di nascita. Inciderai le due pietre con i nomi degli Israeliti seguendo l’arte dell’intagliatore di pietre per l’incisione di un sigillo: le inserirai in castoni d’oro. Fisserai le due pietre sulle spalline dell’efod , come pietre che ricordino presso di me gli Israeliti; così Aronne porterà i loro nomi sulle sue spalle davanti al Signore, come un memoriale (Esodo, 28, 9-12).
Questi elementi storico-culturali del Libro dei Morti, confrontabili con la tradizione giudaico-cristiana, in sostanza possono indicare che i legami di pensiero e di linguaggio tra l’antico Egitto, le popolazioni della Mezzaluna Fertile, l’Ebraismo e il Cristianesimo furono più importanti di quanto comunemente si pensi. Ma ciò non significa che tutto l’insieme della religione ebraica – differente dalle religioni dei popoli circostanti non soltanto perché monoteistica, ma anche perché caratterizzata dall’«assenza di formulazioni mitologiche» [72] – sia un’imitazione costruita con materiali altrui e priva di propri vissuti, intuizioni ed elaborazioni. L’importante archeologo Paolo Matthiae, scopritore della civiltà siriaca di Ebla, ha giustamente puntualizzato:
La religione di Israele costituisce un fenomeno storico eccezionale, che è il risultato di intuizioni ed esperienze irripetibili, del quale si devono individuare e tenere scissi i valori assoluti e immutabili, che la pongono su un piano singolarissimo nella feconda speculazione religiosa orientale antica e dei quali è estremamente complesso discernere la genesi, e quegli elementi che, nello sviluppo storico, vengono continuamente ad arricchirne e a elevarne il contenuto essenziale. Le origini di tali elementi […] mal si intenderebbero fuori di un preciso contesto storico. [73]
D’altra parte, leggendo alcune espressioni del Libro dei Morti si ha l’impressione che gli antichi Egizi siano stati più “portati” delle altre civiltà mediorientali all’approfondimento teologico-metafisico, ma allo stesso tempo non abbiano mai sentito l’esigenza di superare la forma politeistica della loro religione e la mitologia ad essa intrecciata, cosicché le loro maggiori intuizioni religiose sembrano essere rimaste disorganizzate e presenti in modo occasionale nei riferimenti alle singole divinità.
Un esempio di questa situazione può essere dato da un brano del fondamentale capitolo CXXV, in cui il dio Thot è definito «il dio che risiede nella sua stessa ora», mentre il defunto definisce i viventi «coloro che risiedono nel loro stesso giorno», sapendosi «non più tra loro» [74]. Una perifrasi come questa può risultare poco chiara, ma poiché «l’occhio egizio non è meno indagatore di quello greco, e non si può dire che all’antica Terra di Kemet mancasse attitudine teoretica» [75], essa sembra basarsi su un’idea profondamente filosofica: il defunto, essendo ormai fuori del tempo, non «risiede» più nel suo «giorno», cioè la sua vita non è più circostanziata dai suoi stessi limiti temporali come quella dei vivi, che «risiedono nel loro stesso giorno» (cioè sono presenti, per così dire, a tempo determinato), mentre il dio (in questo caso Thot) «risiede» stabilmente «nella sua stessa ora», vale a dire che la sua dimensione temporale non è come quella del defunto (che è acquisita), né come quella precaria dei viventi: è un tempo immutabile, nel quale l’«ora» (cioè il frammento di tempo) non ha limiti, e coincide quindi con l’eternità.
Nel pensiero egizio sembrano dunque esistere almeno due concetti di tempo: l’«ora» eterna degli dèi e il «giorno» limitato dell’essere umano; il quale, morendo, si svincola dai limiti temporali e dalla precarietà della vita; egli, se sarà assicurato dalla coscienza pulita e accompagnato dalla opportuna recitazione del Libro dei Morti, scamperà a tutti i pericoli dell’Oltretomba, «berrà l’acqua corrente del fiume e splenderà come un astro nel Cielo» [76]. Questa frase, alla fine della Rubrica al capitolo CLXV, ancora una volta ricorda il linguaggio biblico: «Nel giorno del loro giudizio i giusti risplenderanno come scintille» (Sapienza, 3, 7), «risplenderanno come le stelle per sempre» (Daniele, 12, 3). L’acqua sacra che, bevuta e/o attraversata, riunisce e riappacifica l’uomo-figlio e il Dio-padre, si trova anche alla fine dell’Apocalisse (il «fiume d’acqua viva», 22, 1), negli ultimi canti del Purgatorio dantesco (i fiumi Lete e Eunoe) e in conclusione alla celebre Storia Infinita di Michael Ende (capitolo XXVI, Le Acque della Vita). Con questo auspicio d’eternità termina l’intero Libro dei Morti di Torino, e come ognuna delle tre cantiche della Divina Commedia, anche l’antico papiro egizio si conclude con una visione del cielo stellato.
Note:
[39] La relativa attendibilità della nascita di Mosè in questo anno medio è sostenuta anche dalla cronologia storica alla fine di Pierre Do-Dinh, Confucio e l’umanesimo cinese, Milano, Mondadori, 1962, p. 185.
[40] Una tradizione ebraica (conosciuta ad esempio dall’attore Moni Ovadia), sostiene che la difficoltà verbale di Mosè fosse dovuta alla sua modestia ed emotività, che gli rendevano molto difficile parlare in pubblico (e ciò si accorda con la sua ritrosia nel presentarsi al faraone su comando di YHWH). Secondo una versione favolistica, la balbuzie fu causata da un carbone ardente col quale Mosè infante si scottò la bocca (cfr. Michèle Kahn, Racconti e leggende della Bibbia. Dal giardino dell’Eden alla Terra promessa, Milano, Bompiani, 1995, pp. 111-112).
[41] La colonna Djed è curiosamente molto simile, sia nella forma sia nel significato, all’ideogramma cinese wang (tre linee orizzontali attraversate da una linea verticale), che significa «re» e simbolizza la figura dell’imperatore come immagine vivente della legge cosmico-sociale (linea verticale) che unisce insieme la terra (linea inferiore), l’umanità (linea mediana) e il cielo (linea superiore).
[42] Il Libro dei Morti (BdR), p. 133.
[43] In particolare, le «piaghe d’Egitto» sembrano ricordi del breve sconvolgimento ecologico che colpì i Paesi del Mediterraneo orientale in conseguenza della catastrofica eruzione vulcanica che distrusse l’isola greca di Thera-Santorini verso il 1603 a. C., cioè in un periodo in cui le tribù ebraiche erano già presenti in Egitto forse da due-tre generazioni. La serie degli eventi è stata ricostruita dai biologi Augusto Mangini e Siro Trevisanato (intervistati per Atlantide-Storie di uomini e di mondi, La 7, puntata del 14 aprile 2011): cfr. Siro Trevisanato, L’historicité des textes bibliques: les plaies d’Égypte. Un link su conclusioni analoghe è www.theblueplanetheart.it/2017/07/leruzione-distruttiva-del-vulcano-thera-dellisola-santorini/.
[44] Il Libro dei Morti (BdR), p. 61.
[45] Ivi, p. 62.
[46] Ivi, p. 98.
[47] Ivi, p. 82.
[48] Ivi, p. 58.
[49] Ivi, pp. 93-94.
[50] Ivi, p. 127. Il potere del serpente Rerek di nuocere con gli occhi è confrontabile con quello del basilisco, l’ibrido di rettile e volatile menzionato nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio e poi nei Bestiari medievali, capace di uccidere con lo sguardo (cfr. Mercatante, Dizionario universale dei miti e delle leggende, cit., p. 117), caratteristica per la quale alcuni hanno ritenuto che il basilisco fosse un’esagerazione distorta del cobra, serpente diffuso in Egitto e dotato di veleno accecante.
[51] Il primo capoverso è citato in Mercatante, Dizionario universale dei miti e delle leggende cit., p. 259; il secondo è tratto da www.liturgiamaranatha.it/Esorcismi/b3/1page.htm.
[52] Il Libro dei Morti (BdR), p. 94.
[53] Ivi, p. 109.
[54] Ivi, p. 131.
[55] Il significato di «prima resurrezione» nell’Apocalisse è dibattuto da secoli: potrebbe essere legato a una concezione millenaristica dell’autore – che quasi certamente non fu Giovanni l’apostolo-evangelista, ma un altro Giovanni (cfr. Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica, III, 39 e VII, 25), o qualcuno che si firmò come l’apostolo (pseudo-epigrafia) per conferire maggiore autorità all’Apocalisse – il quale credeva (contrariamente alla Chiesa maggiore, poi «cattolica») a una resurrezione in due fasi (Ap. 20, 1-5): prima quella dei martiri, che regneranno in terra con Cristo per mille anni; poi, conclusi questi, la resurrezione dei morti di ogni epoca e luogo.
[56] Cfr. ad es. La Bibbia. Prima lettura, a cura di Pietro Vanetti S. J., Milano, Principato, 1984, p. 35. Significativamente, «El Shaddai» fu tradotto con «Pantocrator» dai 72 redattori ebrei della prima versione greca della Bibbia, detta appunto «dei Settanta», realizzata nel III secolo a. C. ad Alessandria d’Egitto, la città con la maggiore comunità ebraica del mondo antico fuori dalla Palestina.
[57] Alessandro Roccati, Egitto: spazio-tempo – Il II° millennio, in Egitto. Introduzione al mondo dei Faraoni, cit., p. 26.
[58] Il Libro dei Morti (BdR),p. 98.
[59] Cfr. Edda Bresciani, L’antico Egitto – La letteratura e le arti, in La Storia, vol. 1, Dalla preistoria all’antico Egitto, cit., p. 677.
[60] Il Libro dei Morti (BdR), p. 105.
[61] Donadoni Roveri, Museo Egizio, cit., p. 41.
[62] Esiste comunque anche una spiegazione medica: «Quasi tutte le popolazioni antiche avevano restrizioni alimentari dovute all’osservanza religiosa. In parte queste regolamentazioni avevano la caratteristica di elementari norme igieniche e dietetiche. In determinati luoghi geografici (come i Paesi del Medio Oriente) eccedere nel consumo di carne di maiale (molto grassa e difficilmente conservabile) e assumere molto alcool (che a temperature elevate può essere causa di scompensi cardiaci) possono causare gravi danni alla salute» (Maria Rosa Poggio, Renato Rosso, Ricerca e Rivelazione, Torino, SEI, 1998, p. 39).
[63] Dati tratti da www.cartigli.it/ e https://www.it.qaz.wiki/Yakub-Har .
[64] Meri-wser-Ra Yakub-har non può essere quindi Giacobbe stesso, come ipotizzano Enrico Baccarini e Andrea Di Lenardo in Dall’India alla Bibbia. Remoti contatti tra India e Vicino Oriente antico, Firenze, Enigma, 2018, pp. 143-147. Di un ruolo di governo affidato a Giacobbe, infatti, la Bibbia non dice nulla, ma ricorda suo figlio Giuseppe divenuto viceré.
[65] Cfr. Alessandro Conti Puorger, Storia e mito degli Ebrei in Egitto, https://www.bibbiaweb.net/lett185e.htm.
[66] Cfr. Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, Milano, Mondadori, 1941, § 79. È un’idea simile a quella dell’àdes dei Greci – con àdes, infatti, fu tradotto sheòl dalla prima versione greca della Bibbia, detta «dei Settanta» – rappresentato ad es. nel canto XI dell’Odissea, in cui Ulisse scende negli Inferi. Un’eco di questa concezione dell’Aldilà è ancora nei «loca pallidula, rigida, nudula» dei celebri versi dell’imperatore romano Adriano (76-138 d. C.), scritti pensando alla propria morte o forse a quella del suo giovane amante Antinoo.
[67] Il Libro dei Morti (BdR), pp. 101-102 passim.
[68] Ivi, p. 103.
[69] Ivi, p. 104 passim.
[70] Ivi, p. 151.
[71] Possiamo rifarci soltanto a Sabina Marineo, La simbolica del pilastro djed . I quattro figli di Horo, Pilastri del cielo, possono essere confrontati con i quattro Giganti Bacab della mitologia mesoamericana dei Maya (cfr. Mercatante, Dizionario universale dei miti e delle leggende, p. 108).
[72] Paolo Matthiae, Gli Ebrei da Abramo all’esilio in Babilonia, in La Storia, vol. 1, Dalla preistoria all’antico Egitto, cit., p. 493.
[73] Ibidem, ivi, p. 496.
[74] Il Libro dei Morti (BdR), p. 104.
[75] Fisogni, Nel segno del pensiero, cap. VI (dattiloscritto cit., p. 105).
[76] Ivi, p. 139 (Formula per approdare, per non essere oscurato e per far prosperare il corpo nel bere l’acqua).
(fine)
(articolo originariamente apparso nel 2021 col titolo Il “Libro dei Morti” degli antichi Egizi 2a parte, sul blog Axis Mundi, che ringraziamo per la collaborazione)
Piervittorio Formichetti
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