Nel novembre del 2008, la mia prima intervista a Emma Dante accompagnava l’uscita del suo romanzo ‘Castellana Bandiera’. Già allora, la sua impronta teatrale era chiara in spettacoli come ‘Carnezzeria’ (2002), ‘Mishelle di Sant’Oliva’ (2006), ‘Cani di bancata’ (2006): un linguaggio “malarucato” (maleducato, ndr), immagini crude e luoghi archetipici di violenza e marginalità, dove vittime e carnefici si confondono su uno stesso piano, in un racconto crudo e poetico. Il suo teatro, viscerale, politico e queer, è sempre stato difficile da ignorare e, per alcuni, anche da ‘perdonare’. Non a una donna, almeno: fiera, scomoda e capace di “spaccare ossa”. Anche in ‘Extra Moenia’, presentato in prima nazionale al Teatro Biondo di Palermo, Emma Dante in un atto unico non lascia spazio alla neutralità, costringendo lo spettatore a confrontarsi con un’umanità animalesca, feroce e straordinariamente vicina.
Il grido poetico e crudele di Emma Dante
Come suggerisce il titolo – “oltre le mura” – lo spettacolo esplora una dimensione liminale in cui la società contemporanea si rivela senza filtri, sospesa tra istinti primordiali e convenzioni sociali. La scena si apre con una schiera di personaggi, uomini e donne fasciati nei loro passaporti notturni. È l’alba tra sbadigli e movimenti lenti, si preparano ad affrontare il mondo intrappolati nei confini della loro esistenza: dalla routine mattutina alla piazza del mercato, dai campi di battaglia ai naufragi in mare, dai matrimoni felici agli stupri di guerra. Ogni scena, costruita con precisione, svela l’assurdità della condizione umana, componendo un grande campionario esistenziale. Fuori dalle mura di casa, questi individui condividono meraviglie e miserie in un mondo fatto di divieti, proteste, speranze e canti. Tra loro troviamo un ferroviere, una donna ucraina in fuga dai bombardamenti, un migrante dal Congo, un militare che glorifica la guerra, una donna iraniana velata, due innamorati che affrontano il peso sociale del matrimonio e una famiglia fanatica che annuncia l’apocalisse. Li incontriamo sul treno, in piazza, al bar, e infine al mare, che si trasforma in un cimitero d’anime con un naufragio collettivo che conclude la loro odissea. Li incontriamo sul treno, al mercato, in piazza, in una chiesa, al bar, e infine al mare minaccioso cimitero d’anime, dove un naufragio collettivo conclude la loro odissea. Emma Dante usa l’ironia per raccontare le tragedie del nostro tempo, alternando feroce comicità a struggente intensità. Le sue storie, mai banali, riescono a trasformare temi sovraesposti in narrazioni toccanti e universali.
Cosa c’è oltre le mura?
C’è “la guerra, che esiste da che esiste la vita”: fisica, culturale, esistenziale. Una guerra che si manifesta in un “gioco della crudeltà” tra istinti e convenzioni. Lo stupro e gli orrori bellici sono simboli visibili nello spettacolo: immagini forti, mai gratuite, che sfidano lo spettatore a confrontarsi con le ipocrisie della società. Lo stupro consumato a danno di una donna (Leonarda Saffi) viene relegato al silenzio e mascherato da trucco e convenzioni sociali, mentre uomini con teste di cavallo (Verdy Antsiou) ci raccontano di sfruttamento e disumanizzazione; e uomini vestiti come calciatori o membri di battaglioni militari sotto la spinta del branco, incarnano una brutalità in cui le donne diventano giocattoli da rompere, figure sacrificali all’interno di guerre o matrimoni vissuti come istituti di possesso.
Arancione bruciato: liturgia visiva della carne
In ‘Extra moenia’ risuona l’inconfondibile timbro visivo di Emma Dante, un arancione bruciato che domina i tableaux vivant dello spettacolo (con le luci curati da Luigi Biondi), affreschi crudi talvolta e per nulla mediati, evocativi e poetici al tempo stesso. Come i costumi di carnevale sospesi sopra i soldati pronti ai giochi di crudeltà. Sfumatura cromatica della vulnerabilità umana, carnale e terrena, in un mondo dove sacro e profano si fondono. È l’arancione della Sicilia di Dante, delle edicole votive, delle passioni consumate e delle ferite mai chiuse.
Il corpo non è uno spazio neutro
Il corpo è un campo di memoria e conflitto, il dolore si fa liquido e trova lo sguardo dello spettatore. I movimenti corali degli attori curati dalla regista (assistente Davide Celona), spesso ieratici e ripetuti, evocano processioni sacre e profane. Ogni interprete del cast diventa una “cattedrale” che ospita un pezzo di umanità in un delicato equilibrio di armonie e dissonanze che caratterizza tutta l’opera. Tra i più intensi, Giuditta Perriera trascende il ruolo caricaturale della donna del popolo; con rapidi girotondi linguistici, in siciliano stretto, dà voce a una donna consumata da un “matrimonio bianco” con i genitori, destinata a una solitudine rassegnata da figlia “zitella”; Italia Carroccio interpreta con ironia drammatica una donna intrappolata nella precarietà urbana alle prese con l’assurdità di un mercato immobiliare che specula sulle difficoltà personali, trasmettendo perfettamente frustrazioni e solitudini del nostro tempo.
Silvia Giuffrè, nel ruolo dell’iraniana, istruita e consapevole, incarna con una fisicità magnetica la lotta tra cancellazione e affermazione di sé. Lo fa dentro gli stereotipi di una società che la insegue (con le telecamere degli smartphone) che non la salva, che la condanna come vittima compiacente di un contesto religioso e non di un sistema patriarcale universale, che non si nomina, ma che si insinua sottilmente persino laddove si proclama inesistente. Trasversale nella sua storia e in quelle di altre donne sul palco, che poi è la vita. Leonarda Saffi restituisce con straziante intensità il dramma di una donna vittima di uno stupro collettivo, il cui dolore viene silenziato, nascosto sotto strati di trucco e vestiti ricuciti, per essere reinserita in un sistema che nega la sua frattura. Verdy Antsiou e Francesca Laviosa incarnano orrori universali: Antsiou è il migrante segnato dall’orrore dei conflitti africani, sconosciuti e dimenticati in cui guerriglieri uccidono intere famiglie e costringono i figli maschi ad arruolarsi: “costretto a ingoiare letteralmente la morte, mangiando i capezzoli della madre assassinata davanti ai cadaveri della propria famiglia”.
Mentre Laviosa porta sul palco una guerra “vicina”, tangibile, che ferisce con altrettanta bestialità. Una madre violata dalla guerra europea, il cui corpo diventa campo di violenza e disprezzo. Entrambi rendono quasi insostenibile il confronto con un’umanità che si autodistrugge. Completano il cast dando prova di ottima prova recitativa e performativa: Roberto Burgio, storico attore palermitano per la prima volta diretto dalla Dante nel ruolo centrato e senza sbavature di un generale d’armata che incita alla guerra e alle sue perversioni, perché: “la guerra è bella, è più spettacolare della pace”. Il necessario conduttore di treni in arrivo e di ritardi d’umanità, il “ferroviere” interpretato da Adriano Di Carlo; Angelica Di Pace la promessa sposa che non vuole essere ingabbiata nel ruolo di madre e moglie del promesso Daniele Savarino. E poi ancora: Gabriele Greco, David Leone, Giuseppe Marino, Ivano Picciallo.
Un’opera che lascia il segno
Emma Dante ci consegna un’opera che spinge nell’abisso e non lascia indifferenti. ‘Extra Moenia’ non offre risposte, ma interroga lo spettatore. “Help me” riporta uno dei cartelli di divieto che sfilano in corteo sul palco, un momento corale di grande impatto. Emerge una flebile possibilità di redenzione nell’emblematico affresco finale: un mare di bottiglie di plastica accoglie il gruppo di attori e attrici che si fa corpo unico, lento e sussultorio, dissolto nel buio. Nella cecità della sala quelle onde lente e non più minacciose tracciano in quell’ultimo rituale collettivo la possibilità di riscatto nel gesto umano condiviso. Il Teatro Biondo, coproduttore insieme ad Atto Unico e Sud Costa Occidentale di “Extra moenia”, si fa luogo di catarsi e denuncia. Confermando Emma Dante come una voce imprescindibile del teatro contemporaneo, capace di trasformare la scena in uno specchio brutale e profondamente umano.
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