La sentenza di Perugia che mercoledì ha portato a 30 condanne per circa 277 anni di pena per reati di mafia segna un passaggio determinante nella storia della comunità umbra. Per la prima volta dei giudici hanno ufficializzato l’operatività mafiosa in questo territorio. Per avere un’idea del significato che assume si pensi che il processo romano noto a tutti come ‘mafia capitale’ non ha portato al riconoscimento della finalità mafiosa delle persone coinvolte, contrariamente a quanto è avvenuto a Perugia in questo processo denominato ‘Quarto passo’. E’ stato infatti riconosciuto il 416 bis ovvero l’associazione con finalità mafiose a una parte significativa dei condannati. I giudici di primo grado, dopo 12 anni tra indagini e dibattimento hanno lanciato un allarme sulla presenze di clan della ndrangheta calabrese che secondo i giudici perugini hanno realizzato una struttura operativa in Umbria solida, funzionante e impegnata sull’economia locale con metodi tipici delle realtà di mafia. Parliamo di una sentenza di primo grado che sarà certamente sottoposta al vaglio dell’appello ma che esce da questa fase con una cifra davvero significativa di condanne che lascia un segno evidente nella società umbra.
I giudici hanno condannato Salvatore Facente a tredici anni e 5 mesi, Cataldo Ceravolo a 28 anni e otto mesi, Mario Campiso a 14 anni e 8 mesi, Antonio Lombardo a 13 anni e 10 mesi, Luigi Orlano a 12 anni, Cataldo De Dio a 27 anni, Natalino Paletta a 15 anni, Nicodemo Blefari a 10 anni e 2 mesi, Rosario Petrozza a 6 anni e 8 mesi, Rocco Vincenzo Cataldi a 11 anni e 9 mesi, Silvia Blefari a 7 anni e 6 mesi, Abdelsamad Soliman Ashraf Abballa detto Stefano a 6 anni, Marino Luigia a 10 anni, Giuseppe Gentile a sei anni e otto mesi, Angelo Maese a 6 anni, Gennaro Cavallo a 7 anni e 6 mesi, Immacolata Pariota detta Imma a 4 anni, Vincenzo Martino detto Mario a 12 anni e 4 mesi, Francesco Manica a 4 anni, Lyte Ervis a 6 anni e 6 mesi, Istrefi Leonart a 7 anni, Verducci Simone a 8 anni e cinque mesi, Francesco Pellegrino detto Raffaele a 8 anni, Natale Murgi 5 anni, Vincenzo Brunetti a 3 anni, Teresa Pignola 5 anni, Larisa Vetrescu a 4 anni, Leonard Vetrescu a 4 anni e Endrit Celanji a 7 anni.
Le condanne prevedono anche risarcimenti e coperture delle spese legali per decine di migliaia di euro, oltre che interdizioni dai pubblici uffici, divieti di intraprendere imprese o sottoscrivere contratti, confische di beni sequestrati per molte decine di migliaia di euro, valore non immediatamente quantificabile. Occorrerà attendere la pubblicazioni delle motivazioni per avere contezza della ricostruzione dei giudici sul perimetro che hanno inteso attribuire a una organizzazione del malaffare nel Cuore verde dell’Umbria. Intanto i difensori dei condannati si dicono convinti dell’infondatezza di un simile quadro e annunciano battaglia legale in appello.
«Una giornata significativa per l’Umbria – scrive l’associazione Libera riconosciuta come parte lesa nel processo insieme ad altre associazioni – come cittadini e cittadine abbiamo il dovere di difendere la legalità e il diritto di vivere democraticamente in una terra che assicura i principi della giustizia sociale. Riconoscere che non siamo esenti da infiltrazioni mafiose ci permette di aprire gli occhi e prendere coscienza di un problema di cui tutti e tutte dobbiamo farci carico, perché la presenza delle mafie ci toglie la possibilità di vivere democraticamente». «Una sentenza – continua l’associazione – che arriva dopo 12 anni dall’avvio delle indagini, e dopo 10 anni dagli arresti e che ha visto coinvolti uomini di ‘ndrangheta, la mafia storica che ha origine in Calabria e il cui giro d’affari in un anno in tutto il mondo si aggira intorno ai 60/70 miliardi di euro. In totale sono 277 gli anni di pena inflitti, per la gestione di attività economiche, estorsione, usura, bancarotta fraudolenta, traffico di sostanze stupefacenti, 46 richieste di condanne per le 52 persone imputate, a molti di loro è stata addebitata la responsabilità del delitto di associazione a delinquere di tipo mafioso. Da Cirò, nel crotonese, uno dei boss del clan Farao Marincola, radicato a Perugia ha costruito un intreccio di affari: 39 imprese, 106 immobili, 129 veicoli, 28 contratti assicurativi, più di 300 rapporti bancari e di credito». «Le udienze del processo Quarto Passo- conclude Libera Umbria – ci hanno visto, in prima linea. Ci siamo costituiti parte civile il 28 novembre del 2016, perché crediamo che entrare nelle aule dei tribunali sia un fondamentale esercizio di democrazia partecipata, per capire quali sono i danni che le mafie arrecano alla società e alla comunità del Paese. Prendere parola nei processi serve a questo, ad accompagnare la parte offesa, ad evitare che il potere della criminalità organizzata si nutra anche dell’indifferenza della maggior parte delle persone, a ribadire con forza da che parte stiamo».
Source link
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link
Source link