4 paesi su 5 reprimono la società civile, in Africa e nel mondo

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Dal Kenya alla Liberia, il nuovo report Civicus fotografa un continente in bilico tra repressioni e segnali di speranza

05 Dicembre 2024

Articolo di Redazione

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Tempo di lettura 4 minuti

Nel mondo, il 70% della popolazione vive in società dove protestare, esprimere un’opinione o anche solo accedere a informazioni non filtrate è estremamente rischioso.

Lo racconta il report People Power Under Attack 2024 di Civicus, secondo cui nell’ultimo anno la percentuale di popolazione globale che vive all’interno di uno stato in cui lo spazio civico è considerato “represso” o “chiuso” è aumentata dell’1,5%. Il continente africano si inserisce in questo contesto. 43 dei 50 paesi dell’Africa subsahariana presentano spazi civici non presentano condizioni di soddisfacenti e solo due sono considerati davvero “aperti”, ovvero Capo Verde e São Tomé e Príncipe. 

Progressi incoraggianti: Botswana e Liberia

Non mancano segnali positivi. È il caso di Botswana e Liberia, dove lo spazio civico è migliorato, passando da “ostruito” a “ridotto”. In Liberia, la pacifica transizione di potere tra George Weah e Joseph Boakai ha portato a una riduzione delle violazioni alla libertà di stampa e di assemblea. Anche in Botswana, la pressione della società civile ha fermato una proposta di revisione costituzionale considerata antidemocratica​ e ha visto da poco svolgersi un pacifico processo elettorale dove ha vinto il candidato di opposizione. 

Peggioramento globale

Sono anni che gli esperti di Civicus segnalano un peggioramento graduale su scala globale. E questo nonostante diversi paesi, di volta in volta, manifestano di aver intrapreso un percorso positivo. Ma in Africa, così come altrove, la tendenza è preoccupante di un aumento delle tattiche repressive. Alle modalità più ‘canoniche’, come l’arresto diffuso di manifestanti o intimidazioni e sequestri di giornalisti, si stanno integrando anche gli strumenti digitali. Segnali meno incoraggianti in questo senso arrivano da eSwatini, Etiopia, Burkina Faso e Kenya.

Kenya e la repressione delle proteste

Tra i casi emblematici di peggioramento, invece,  c’è il Kenya, declassato da “ostruito” a “represso”. Le proteste contro una legge finanziaria che avrebbe aumentato drasticamente le tasse sono state soffocate con violenza: almeno 60 persone uccise, oltre 1.000 arresti e decine di attivisti scomparsi. Ma c’è di più. Durante le manifestazioni di giugno, l’interruzione di internet ha attirato l’attenzione di analisti e attivisti per i diritti digitali. Sebbene le autorità abbiano attribuito il blackout a problemi tecnici, la tempistica, coincidente con le proteste, suggerisce un’azione deliberata per ostacolare la mobilitazione e impedire la circolazione di informazioni​

Limitazioni digitali

L’uso repressivo delle chiusure di internet non si limita al Kenya. In Guinea Equatoriale, l’intera isola di Annobon è rimasta isolata dal resto del mondo durante proteste contro l’estrazione mineraria incontrollata. In Mozambico, un blackout digitale ha accompagnato le proteste contro le elezioni contestate, mentre in Tanzania l’accesso a piattaforme come X è stato bloccato proprio mentre attivisti denunciavano violazioni dei diritti umani​. Felicia Anthonio, di Access Now, ha sottolineato come queste chiusure siano usate non solo per silenziare il dissenso, ma anche per negare alle persone l’accesso a informazioni vitali in situazioni critiche: “In contesti di crisi, impedire l’accesso alle informazioni può letteralmente fare la differenza tra la vita e la morte”.

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Il caso del Burkina Faso e l’escalation autoritaria

Anche il Burkina Faso ha registrato un peggioramento significativo. Dopo il colpo di stato del 2022, il paese è passato da “ostruito” a “represso”. La giunta militare guidata da Ibrahim Traoré ha intensificato la censura e usato leggi di emergenza per perseguire giornalisti e attivisti. Solo nell’ultimo anno, 12 media sono stati chiusi, spesso per il modo in cui trattavano temi legati alla sicurezza nazionale​.

L’Etiopia diventa un paese “chiuso”

Negli ultimi anni, la situazione dello spazio civico in Etiopia è notevolmente peggiorata. Nonostante la promessa di aperture democratiche iniziate con il premier Abiy Ahmed, il conflitto nella regione del Tigray e le tensioni etniche hanno portato a una stretta autoritaria. Giornalisti, attivisti e membri della società civile sono stati arrestati o perseguitati, e la censura si è intensificata, con blocchi di internet e restrizioni alla stampa indipendente. Questo deterioramento sta ostacolando il dialogo pubblico, compromettendo anche gli sforzi per costruire una pace duratura nel Paese. (AB)

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