Quando Riccardo Fois a soli 17 anni prese l’aereo dalla sua Sardegna per volare negli Stati Uniti come exchange student in uno sperduto liceo dello stato dell’Alabama, non aveva ben idea di quello che sarebbe potuto accadere ma sapeva, forse inconsciamente, che quella scelta avrebbe di sicuro fatto succedere qualcosa.
Ecco, se potessi riassumere Ricky in poche parole direi che è uno che fa succedere le cose. Ora che a 37 anni la sua terza stagione da assistente allenatore nella Nba sulla panchina dei Sacramento Kings (dopo due a Phoenix e in mezzo tanta NCAA) è iniziata, mi sono virtualmente seduto a un tavolo con lui per ripercorrere quella linea immaginaria che collega le sue origini sulle coste sarde di Olbia con quelle californiane dell’Oceano Pacifico, diventate ora la sua seconda casa dopo l’indimenticabile Finale Nba 2021 con i Phoenix Suns.
L’unico allenatore italiano in Nba
Come va Riccardo? Sei di nuovo l’unico allenatore italiano presente su una panchina Nba, immagino sia un grande orgoglio…
Sì, è un orgoglio che porta con sé un incredibile senso di responsabilità verso chi dall’Italia sogna l’Nba e vorrebbe fare questo lavoro: raccolgo l’eredità di Ettore Messina e Sergio Scariolo, due leggende nostrane che qui hanno fatto un lavoro enorme aprendo un’opportunità che sono riuscito a cogliere. Ora è il mio turno e voglio tenere viva questa “legacy” per permettere al prossimo allenatore italiano di provarci realmente. Per questo vorrei portare il più alto possibile questo testimone e perchè no, un domani diventare capo allenatore Nba, ma senza mai compromettere la mia felicità e il mio equilibrio.
Come sta andando questa nuova stagione, la tua prima a Sacramento? Quali sono le tue responsabilità all’interno del coaching staff di coach Mike Brown?
Al mio arrivo a Settembre ho trovato un’atmosfera molto carica devo dire. I Kings sono reduci da due anni in fila ai playoff e le aspettative sono molto alte. L’annata è importante, così come la firma nella free agency di un All-Star come DeMar Derozan: una rarità per un mercato piccolo come il nostro. Stiamo gradualmente trovando il nostro equilibrio, il nostro ritmo, una nuova chimica di squadra.
In totale siamo in otto assistenti allenatori: solitamente una squadra Nba usa dividere i compiti per l’attacco e la difesa, così io faccio parte del team “difensivo”, un ruolo che ho accettato con grande entusiasmo e un forte senso di sfida in quanto eredito una difesa che nelle ultime stagioni non ha di certo brillato. Il mio è un lavoro quotidiano che divido tra quello individuale con gli esterni del nostro roster, lo scambio di informazioni con i nostri 28 scout e l’allenamento collettivo.
Facciamo un passo indietro. Nasci come giocatore a Olbia nella squadra locale. Eri – mi dicono – fortissimo ma pure un po’ testa calda come il tuo idolo dell’epoca, il play lituano Jasikevicius: una guardia brillante dal no-look facile e dal tiro selvaggio. Ma soprattutto avevi già in te i geni dell’allenatore grazie a una passione smisurata per il basket universitario americano: è vero che a 15 anni ti sei presentato dal tuo mitico coach Pasini alla vigilia di un’importante partita contro una squadra di Cagliari che pressava a tutto campo, con un plico di schemi contro la zone-press che avevi preparato guardando le partite NCAA su Tele+?
Confermo tutto! Piero “Topone” Pasini è stata una figura cruciale per la mia crescita, riusciva a farmi esprimere il mio amore per il basket dandomi spazio anche su queste cose. All’epoca la Sardegna era una sorta di “terzo mondo” cestistico ma noi a Olbia abbiamo avuto un privilegio assurdo nel vivere la pallacanestro come uno sport globale, internazionale, grazie alla visione di Giorgio, il compianto papà di Gigi Datome: alle giovanili avevamo allenatori di Serie A1 come Pasini, coach greci o croati come Bobo Jurkovic, facevamo tornei all’estero, guardavamo e commentavamo basket tutti i giorni. Una piccola bolla fortunata culminata con lo storico scudetto italiano categoria Allievi del 2002: và detto che nonostate i miei plichi per superare la pressione, in semifinale contro l’Olimpia perdemmo 33 palloni [ride]
Arriviamo quindi al tuo cosiddetto “Anno-Zero”, a quei 17 anni in cui lasci tutto e voli al liceo a Boaz, nel non troppo ridente stato dell’Alabama. So che è lì che avviene la prima vera svolta della tua vita e della tua carriera, ma non per i motivi che ci si potrebbe aspettare: credo c’entrino dei videogiochi…
Sì, ero un giocatore incallito, ovviamente in Italia davo il meglio con “Football Manager” mentre negli States – dato che la famiglia un po’ bigotta che mi ospitava mi vietava di giocare a “GTA” considerato troppo violento – mi sono appassionato a “College Hoops”, una sorta di “Nba 2K” ma del campionato universitario. Pazzesca coincidenza, nel videogame sceglievo sempre l’università di Gonzaga per alcuni giocatori di culto che aveva e per il nome “italiano”, ma perdevo spesso contro Pepperdine di cui ricordo ancora oggi le grafiche da primi anni Duemila che mostravano il campus del college a Malibu, in California. Non sapendo bene cosa fare dopo aver preso il diploma al liceo americano, come tutti i miei compagni mando le famose lettere formali per l’iscrizione universitaria a tre atenei: Duke (sì lo ammetto…), ovviamente la “mia” Gonzaga e la mia “nemesi” virtuale, Pepperdine, senza grandi speranze. Incredibilmente la terza mi accetta: ricordo ancora mio padre da Olbia che mi chiama e mi dice “è arrivata una lettera da una certa Pepperdine” pronunciata con accento sardo. Mi iscrivo quindi a Gennaio 2006 all’università di Pepperdine trasferendomi nel loro campus a nord di Los Angeles e poi, seguendo il “caloroso” consiglio dei miei, a Maggio 2006 torno in Italia per fare l’esame di maturità a Olbia.
Un destino segnato insomma. Eppure, dopo la laurea a Pepperdine in Integrated Marketing Communication torni comunque in Italia per provare la carriera da cestista professionista. Qualcosa deve essere successo se ti ritroviamo poi improvvisamente nel 2012 di nuovo in California nella tua alma mater: c’entra forse un professore di UCLA dal cognome tedesco?
Diciamo che in quei mesi capisco rapidamente di non essere al livello del mio amico Gigi Datome, per cui abbandono ogni velleità da cestista e mi ri-butto sullo studio accademico con un corso estivo al college, a UCLA. Lì il professor Pfeiffer, matto come un cavallo ma geniale titolare della cattedra di “Extreme Marketing” mi illumina la via nel modo più folle: mi dice di andare sempre di persona a presentarmi ovunque io sia interessato a lavorare, dicendo di riferire che mi mandava lui. Scoprii poi che era solo un trick psicologico per smuoverci a fare le cose: lui in realtà non conosceva nessuno di quelli cui mi rivolgevo, ma non sapendolo prima il tentativo mi sembrava molto più fattibile di quello che era nella realtà. Così tornai a Pepperdine, mi iscrissi a un loro MBA e contestualmente come da copione chiesi al dipartimento della squadra di basket se erano interessati a farmi lavorare con loro: erano solo in quattro allenatori e avevano bisogno, quindi accettarono e la mia gavetta iniziò così, dall’analisi dei video e delle partite, alle statistiche avanzate fino allo sviluppo dei giocatori dell’università.
Una storia decisamente originale! E nella tua Odissea a stelle e strisce c’è stato un momento in cui l’Italia ti è mancata più del solito? So per certo che nel corso degli anni hai sollevato alcuni “malumori” all’interno dello staff della nazionale italiana in cui sei assistente dal 2017, per una sorta di imposizione nell’andare sempre a cenare in ristoranti italiani improbabili a qualsiasi latitudine, da Manila durante i Mondiali 2023 nelle Filippine passando per il Portorico…
Prima di tutto voglio subito mettere a tacere queste dicerie dato che anche a Portorico i miei cari colleghi in nazionale sono voluti ritornare al ristorante che avevo scelto per la prima cena, quindi così male forse non era. So che mi considerano una sorta di TripAdvisor dei ristoranti italiani nel mondo, ma non posso farci nulla, la nostra cucina mi manca e negli Stati Uniti non è così semplice replicarla ogni giorno. A Manila poi la mia scelta, il mitico ristorante “A Mano”, fu talmente di qualità che dopo esserci stati noi venne a cena pure lo staff di Team Usa con cui avevo una connection grazie a uno degli assistenti, il mio coach a Gonzaga Mark Few: rimasero tutti soddisfatti e scattammo anche una bella foto a fine cena, peccato che a causa delle origini filippine di coach Erik Spoelstra dei Miami Heat il locale diventò presto preda dei fan e Team Usa fu costretto a fuggire dalla cucina!
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