Dopo la fine del periodo della pandemia e delle restrizioni che ne sono conseguite, le pubbliche selezioni hanno hanno vissuto una sorta di nuova primavera. Anche e soprattutto grazie al Pnrr, e quindi agli obiettivi di turnover, rinnovamento e potenziamento della Pubblica Amministrazione, in questi ultimi anni non sono mancati di certo i concorsi.
Come indica Il Sole 24 Ore, nei primi otto mesi di quest’anno sono stati pubblicati più di 13mila bandi per quasi 300mila posti di lavoro, vale a dire 2,7 volte (+176%) quelli dello scorso anno. E sono giunte circa due milioni di candidature. Con un’età media nel pubblico impiego superiore ai 50 anni – soltanto due persone su 100 under 30 – è ben comprensibile la necessità di nuovi bandi. La PA sarà chiamata ad assumere soprattutto per mantenere l’operatività degli enti: si stima infatti che, entro il 2033, oltre un milione di dipendenti pubblici saranno obbligati ad andare in pensione, circa uno su tre.
Tuttavia non è tutto oro ciò che luccica, perché è vero che oggi se ci sono tanti concorsi, non mancano affatto le rinunce da parte di coloro che le selezioni le superano. E se questo potrebbe sorprendere perché il concorso riserva l’agognato posto fisso, tant’è: di seguito cercheremo di capire i motivi del dietrofront dei vincitori e vedremo in sintesi alcuni casi specifici che, localmente, aiutano a capire perché ormai il fascino dei concorsi pubblici non è più quello di una volta.
Concorsi pubblici, i motivi per cui non attraggono più
Come accennato, nella Pubblica Amministrazione si evidenzia una evidente ripresa dei concorsi, ma anche una complessiva diminuzione dei candidati e una crescita delle rinunce e delle dimissioni. La PA ha necessità di personale specializzato e di nuove risorse formate, ma il personale specializzato sembra sempre meno attratto – preferendo il privato o lavorare all’estero.
Si tenta la carta della concorso pubblico ma magari al contempo si partecipa ad altre selezioni (anche nel privato), che promettono stipendi più corposi. Con la conseguenza che il candidato preparato e capace di passare più selezioni diverse, alla fine sceglie il lavoro meglio remunerato.
Vero è che le giovani generazioni preferiscono la flessibilità oraria e una vera opportunità di crescita personale e professionale, ossia aspetti che – nel senso comune – non sono rintracciabili nel pubblico impiego, caratterizzato per antonomasia da ruoli gerarchici e lente progressioni di carriera. Al contempo i giovani, laureati e non, avvertono una scarsa meritocrazia nel pubblico impiego e – pur magari tentando la carta del concorso per mettersi alla prova – poi rinunciano al posto oppure si dimettono, perché ritengono di non avere possibilità di crescita legata al merito ma soltanto all’anzianità di servizio.
Non solo. Anche lo stipendio non è percepito come adeguato alle proprie aspettative. In particolare le retribuzioni per i ruoli iniziali sono spesso considerate scarsamente competitive rispetto al settore privato, e soprattutto in ambiti come l’IT, il design o il marketing. Il giovane formato preferisce guardare altrove, se non all’estero.
Senza dimenticare che in alcune città o regioni, il carovita è così evidente da rendere i salari inadatti alle spese quotidiane e all’inflazione. Spesso i vincitori di concorso sono assegnati a sedi lontane dalla loro città di residenza, con ulteriori costi e la prospettiva – non accettata da tutti – di allontanarsi dalla famiglia e dagli amici.
Altro aspetto non meno importante è la maggiore attenzione, riposta dalle giovani generazioni, all’equilibrio tra vita privata e carriera. Un posto fisso, pur stabile, può richiedere orari intensi e straordinari oppure trasferimenti non graditi a chi vuole anche coltivare le proprie passioni o progetti personali. Un po’ come dire che la sicurezza economica vuol dire tanto, ma non tutto.
Meno candidati e più rinunce, alcuni numeri interessanti e il caso della Sicilia
Lo sottolinea Il Sole 24 Ore: negli ultimi anni – e in particolare da inizio 2021 a giugno 2022 – si sono presentati appena 40 candidati per ciascun posto messo a concorso, vale a dire un quinto rispetto ai duecento di media nel biennio anteriore. Non solo. In media due vincitori su dieci hanno rinunciato al posto, con punte del 50% di rinunce per quelli con contratto a tempo determinato.
Inoltre, il fenomeno delle candidature multiple – con vincitori in più posizioni – non ha favorito l’auspicato massiccio turnover, tanto da aversi una sorta di concorrenza tra enti per cui l’8,6% dei 150mila assunti per concorso nel 2021 era già un dipendente del pubblico impiego. Più concorsi vinti significa anche più opportunità di scelta, con molte persone che preferiscono non trasferirsi in una città del nord Italia, pur dopo aver vinto un concorso pubblico. I costi dell’affitto delle abitazioni, insieme alle altre spese quotidiane, frenano infatti le aspettative di chi vive nel meridione e preferisce cercare un impiego dalle sue parti.
Ma, a ben vedere, anche nel Sud Italia l’impiego pubblico non attrae più come prima. Basti pensare al recente caso del concorso funzionari (categoria D) per lavorare negli uffici della Regione Sicilia, il quale – spiegano le cronache locali – mostra che al posto fisso con contratto a tempo indeterminato, alla fine, hanno detto sì meno della metà di quanti erano stati chiamati a lavorare. Ci si riferisce agli aspiranti funzionari che erano rimasti fuori tre anni fa ma che nel 2024 erano stati chiamati per andare a ricoprire i posti liberatisi – in virtù dell’accordo che ha sbloccato il turnover. Su 216 arruolabili, hanno accettato soltanto 106 persone.
La situazione a Milano, record di dimissioni e stipendi più leggeri
Anche la maggiore città della Lombardia è un esempio tangibile dell’attuale situazione del pubblico impiego e di un appeal che è sceso nel corso del tempo. Se una volta il posto fisso a Milano era il sogno di moltissime persone, oggi – tra aumenti dei prezzi delle abitazioni e costo della vita sempre più insostenibile – l’opinione delle giovani generazioni è cambiata.
Tra gennaio 2023 e giugno 2024 ben 6mila dimissioni nel capoluogo della regione, giustificate – secondo la Cgil – da stipendi bassi e comunque non in linea con l’inflazione e con la valorizzazione delle risorse. In sintesi, una buona fetta dei lavoratori della PA di Milano si sono sentiti insoddisfatti e poco stimati per ciò che fanno in ufficio – e senza favorevoli prospettive economiche – preferendo così lasciare il posto di lavoro in cerca di opportunità migliori.
Numeri e percentuali fornite da Cgil sul suo sito web descrivono chiaramente il quadro occupazionale: tra il 2022 e il 2023, il numero di occupati nel pubblico impiego a Milano è sceso del 15%, ossia un – 32mila unità. Questo calo è stato trasversale, riguardando ad es. il servizio sanitario (-15%) o le forze armate, la polizia e i vigili del fuoco (-8,3%). A ben vedere, si tratta di un esempio lampante del fenomeno denominato great resignation.
Infine, anche il dato delle buste paga dei dipendenti pubblici è significativo: secondo gli ultimi dati Inps disponibili, la retribuzione giornaliera media ha toccato 125 euro, indicando un aumento dell’8% rispetto al 2022. Il debole incremento non ha compensato l’effetto dell’inflazione, causando anzi anzi una riduzione del potere d’acquisto per tutti i comparti pubblici.
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