Licenziamento, basta una bugia al datore di lavoro: la Cassazione spiega perché

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Chiarezza e lealtà nel rapporto di lavoro sono gli ingredienti base per un’esperienza proficua e continuativa. D’altronde, a nessuno piace essere ingannati o divenire il bersaglio di menzogne mirate a proteggere un qualche beneficio o a nascondere un abuso dei propri diritti di lavoratore.

Un recente caso affrontato dalla Corte di Cassazione ci ricorda una regola aurea: la fiducia è alla base di ogni rapporto con gli altri, e a maggior ragione con l’azienda o datore di lavoro – ossia il soggetto che paga i contributi e lo stipendio e permette di ottenere un reddito fisso mensile. Come vedremo in questo articolo, con l‘ordinanza n. 30613 i giudici di piazza Cavour hanno stabilito l’esito di un procedimento giudiziario nato da un licenziamento per una bugia al datore di lavoro.

Davvero si può essere allontanati dal proprio ufficio, per aver mentito – anche solo una volta – al proprio capo? Ecco cosa sapere.

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La vicenda e la menzogna del dipendente

Se un’azienda scopre che un dipendente ha mentito, la credibilità di quest’ultimo viene compromessa, rendendo difficile costruire o mantenere un rapporto lavorativo solido ed esponendo l’autore della bugia a conseguenze disciplinari anche molto gravi.

Un lavoratore dipendente, responsabile di un punto vendita della società datrice, aveva impugnato il licenziamento inflittogli per aver ritardato la ripresa del lavoro dopo la pausa pranzo – senza avvisare il capo – e per non essersi presentato in servizio, ancora senza preavviso, il giorno dopo.

Più nel dettaglio, la contestazione disciplinare – si legge nel provvedimento della Cassazione – riguardava il comportamento del responsabile che, oltre a non rispettare l’orario di lavoro, nelle ore successive si era allontanato dalla località di impiego, prendendo un volo diretto a Milano.

L’uomo non ebbe ovviamente modo di essere sul posto di lavoro il giorno successivo, ma – e qui sta la bugia che ha determinato il licenziamento disciplinare – si giustificò invocando, telefonicamente, sopravvenuti impedimenti legati alla salute del coniuge e rassicurando, comunque, sulla possibilità di recarsi al lavoro in caso di necessità, lasciando dunque intendere di trovarsi in città.

Su questi fatti il tribunale di primo grado confermò la correttezza del licenziamento inflitto, e così fece anche il giudice dell’appello. Ne è seguito il ricorso in Cassazione da parte dell’uomo, teso a ribaltare le precedenti sentenze di merito.

La decisione della Cassazione conferma l’appello

La Suprema Corte non ha mutato le conseguenze per il lavoratore, confermando la bontà del ragionamento della corte territoriale. Come si può leggere nel testo dell’ordinanza n. 30613, infatti, la Cassazione ha sottolineato che il giudice d’appello ha individuato con precisione i fatti contestati e la violazione disciplinare addebitata, ossia la condotta “truffaldina” tenuta dal lavoratore, del tutto privo di responsabilità rispetto alle mansioni rivestite in azienda, e non semplicemente un’assenza ingiustificata.

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Proprio questo comportamento è stato ritenuto così grave da giustificare la sanzione dell’espulsione, anche perché – a ben vedere – il contratto collettivo applicato al lavoratore, settore Terziario, distribuzione e servizi, definiva la condotta come un “abuso di fiducia” e una “grave violazione degli obblighi”. Ecco perché la massima sanzione disciplinare appariva del tutto congrua.

In particolare il lavoratore licenziato non aveva rispettato scrupolosamente i doveri d’ufficio, secondo quanto stabilito dall’art. 25 del Ccnl applicato in azienda, anzi andando incontro alle conseguenze di cui all’art. 2119 Codice Civile, ossia il recesso per giusta causa da parte dell’azienda.

La corte d’appello ha perciò accertato correttamente che il lavoratore non si era reso responsabile di una mera assenza ingiustificata, ma aveva tenuto un comportamento caratterizzato:

“da un quid pluris rappresentato da “programmazione anticipata e risalente” nel tempo, “pervicacia” nel decidere “di non presentarsi al lavoro il 13 febbraio”, comunicazioni tali far intendere all’azienda di essere al capezzale della moglie, di essere disponibile a rientrare in servizio nel pomeriggio del 13, di assentarsi per ferie solamente il 16 febbraio.

In sostanza, la Cassazione fa proprie le conclusioni del giudice di secondo grado: il dipendente licenziato aveva mostrato assenza di qualunque scrupolo per le esigenze aziendali, contrastando con gli obblighi tipici di chi ricopre il ruolo di direttore di un punto vendita.

Ecco perché nel testo dell’ordinanza n. 30613 si trova scritto che proprio questo comportamento menzognero – una bugia architettata con attenzione – era in grado di escludere la riconducibilità della condotta alle norme collettive, che puniscono l’assenza dal lavoro con la mera sanzione conservativa (ad es. multa).

D’altronde, già in questa direzione si era pronunciata la Suprema Corte in un suo precedente – Cass. n. 26198 del 2022 – che infatti viene richiamato nella recente ordinanza. In quelle circostanze, infatti, non veniva in rilievo la sola assenza ingiustificata ma una condotta di vero e proprio abuso del diritto (vista anche in riferimento ai permessi sindacali o al dipendente in malattia) e – quindi – caratterizzata da maggiore gravità oggettiva e soggettiva, rispetto a quella considerata dalla norma del contratto collettivo.

Che cosa cambia

Con l’ordinanza della Cassazione n. 30613, il ricorso dell’uomo è stato così definitivamente respinto, chiudendosi per lui le porte del ribaltamento della scelta aziendale di licenziarlo. Per il lavoratore anche l’obbligo di pagare le spese del giudizio presso la Corte, compresi gli ingenti compensi professionali.

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La vicenda in oggetto deve o dovrebbe quindi sollecitare a cambiare la prospettiva con cui alcuni lavoratori guardano al rapporto di lavoro. La piena trasparenza è sempre premiata e contribuisce a rafforzare la stima dell’azienda, anche perché – come visto in questo caso – anche una sola bugia può costare molto caro, se si viene beccati e se emerge quindi il piano “truffaldino” mirato ad ingannare l’azienda per mettere al primo posto i propri interessi personali.





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