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La tesi espressa dallo psicologo americano Jonathan Haidt nel suo fortunato La generazione ansiosa (Rizzoli, pp. 456, euro 22, traduzione di Lucilla Rodinò e Rosa Prencipe) appare tanto vicina al senso comune da non richiedere spiegazioni: Haidt sostiene che bambini e adolescenti, iperprotetti nel mondo reale, abbiano invece un’eccessiva libertà d’azione nel mondo virtuale (quale genitore sa davvero cosa guardano i propri figli sul cellulare?). Quindi, se andare a scuola a piedi è considerato pericoloso anche per un dodicenne, è invece normale lasciare che un bambino di dieci mesi familiarizzi col tablet, magari attraverso canali YouTube come Cocomelon.
COSÌ, ANNO DOPO ANNO, i modelli della cultura digitale soppiantano quelli della cultura familiare e locale. Ma poiché l’essere umano non è fatto per crescere fissando uno schermo, questa «infanzia fondata sul telefono» finisce per presentarci il conto (in Australia entrerà in vigore l’anno prossimo proprio una legge di divieto sull’uso dei social per i minori di 16 anni). I dati riportati da Haidt evidenziano un impressionante aumento delle malattie nervose fra i giovani rispetto al 2010. La depressione riguarderebbe addirittura oltre il 25% delle teenager americane, mentre i maschi sembrano soffrire maggiormente di altre patologie, non meno gravi (incapacità di relazionarsi col mondo reale, dipendenza da videogiochi e pornografia online).
I dati riguardano soprattutto gli Usa, ma c’è ragione di credere che anche in Europa le cose non siano troppo diverse. Tuttavia, alle argomentazioni del saggio possono essere mosse alcune obiezioni. Intanto, quelle evidenziate da Haidt sono prevalentemente correlazioni: è vero che il disagio sociale è cresciuto da quando gli smartphone hanno cominciato a rimpiazzare i vecchi telefoni cellulari, ma chi ci dice che non siano proprio i giovani depressi o ansiosi a fare un maggior uso della tecnologia? Haidt ha poi trascurato tutto quanto sta dietro il proliferare di app e telefonini: la tecnologia viene fruita all’interno di un sistema socioeconomico fondato sull’individualismo e l’autopromozione, che certo non giova alla salute mentale di bambini e famiglie.
Insomma, sarebbe persino troppo bello se il freudiano disagio nella civiltà fosse attribuibile esclusivamente ai telefoni cellulari.
La generazione ansiosa non andrebbe però affrontata con piglio razionalistico. Il testo, anche se ne avrebbe l’ambizione, non reggerebbe di fronte ai potenti colpi di una «lettura scientifica». Ma abbiamo proprio bisogno della costante benedizione della scienza, di questa sorta di divinità moderna e laica? Non possiamo considerare quello di Haidt come un saggio di costume, magari con qualche aspetto rilevante anche dal punto di vista letterario? In questa chiave, il libro assume tutta un’altra valenza, e può persino essere considerato uno straordinario esempio di paraletteratura americana di successo.
HAIDT RAGGIUNGE un’ampia fetta di pubblico perché esprime il disagio per il modello di sviluppo nel quale siamo imprigionati – anche se lo fa senza parlare mai di economia. Si rivolge all’individuo della strada, che percorre vie cittadine affollate di antenne e ripetitori. Magari le sue argomentazioni non saranno scientificamente dimostrabili, ma danno voce all’angoscia globale per un presente disumanizzante nel quale i «giovani sono meno capaci di qualsiasi altra generazione della storia di mettere radici in comunità del mondo reale». Come nel capitolo in cui riflette sulla diminuzione delle esperienze di spiritualità, silenzio, stupore di fronte alla natura, corporeità e condivisione, meditazione. Tutte cose che gli ex bambini e bambine delle generazioni precedenti alla Z (nati prima del 1995) hanno potuto conoscere attraverso un’«infanzia fondata sul gioco»: andando a scuola a piedi, apprendendo attraverso l’imitazione di persone del mondo reale, sperimentando giochi rischiosi. Senza una miriade di stimoli virtuali, ma con il pomeriggio a disposizione per annoiarsi e vagare per il quartiere.
Dietro il successo di Haidt c’è dunque un effetto-nostalgia buono per la Gen X o per i vituperati boomers? Forse non solo. Perché la tenacia e l’ottimismo che traspaiono dal testo – la parte IV contiene un elenco di azioni rivolte a genitori, scuole e governi per «riportare l’infanzia sulla terra» – configurano questo saggio come un appello e un programma affinché lo sviluppo tecnologico non pregiudichi la nostra umanità: insomma, come un raro atto di resistenza.
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