Il turismo cresce, la cultura costituisce un pezzo importante dell’economia ma senza industria – sostenibile e rispettosa di storie e ambienti – il Sud rischia di avviarsi verso un declino infelice.
Le crisi industriali di Brindisi (chimica e carbone), Taranto (acciaio e carbone), Bari (automotive) e Melfi (automotive) mettono in discussione migliaia di posti di lavoro e centinaia di imprese dell’indotto.
Non si tratta di sostenere la manifattura a ogni costo ma di compiere scelte capaci di coniugare l’occupazione con i conti ambientali ed energetici in ordine. La crisi dell’automotive non è il frutto dell’incapacità di produrre vetture e componenti per le stesse tra Melfi e Bari ma di scelte industriali calate dall’alto – basta modelli a benzina e diesel, incentivi e sostegni solo all’elettrico che però vede i cinesi anni luce davanti a noi – senza alcun piano, o accorgimento che dir si voglia, per il tessuto produttivo del territorio. Non si tratta di chiedere assistenza che è sempre a carico dei contribuenti, che mai risolve definitivamente i problemi, che deprime – economicamente e non solo – chi la riceve, ma di sollecitare un piano di azione che garantisca la transizione in tutte le sue declinazioni (industriale, energetica e ambientale), non trascurandone nemmeno una.
Alcuni esempi.
Uno degli ultimi modelli di successo del gruppo Stellantis è la Jeep Avenger: piccola, bella ma non disponibile con il diesel multijet da 95 cavalli fiore all’occhiello dell’ex Fiat perché l’Europa, a seguito del potere esercitato dalle lobby dell’elettrico, non vuole più le vetture a gasolio, nemmeno quelle come in questo caso dotate di propulsori moderni e decisamente meno inquinanti del passato oltre che molto ma molto meno costosi rispetto alle vetture full elettric. Doveva per forza andare così?
L’Ilva di Taranto ha in funzione due vecchi altiforni alimentati a carbone, con davanti pochi anni di vita operativa sia per ragioni strutturali che per ragioni di convenienza economica visti i costi ambientali che le acciaierie a ciclo integrale, come quella jonica, saranno tenute a sostenere a breve per allinearsi agli obiettivi emissivi europei. Andranno sostituiti, quei due altiforni, con forni elettrici che richiedono un investimento complessivo di almeno 4-5 miliardi di euro, enormi quantità di gas a tariffa contenuta e una forza lavoro pari a un terzo dell’attuale. Ne vale la pena? L’Italia ormai può fare a meno dell’acciaio di Taranto – pari a circa il 10 per cento di quello complessivamente prodotto entro i confini nazionali, l’unico ad essere ancora legato al ciclo integrale – ma Taranto non può fare a meno dell’industria.
A Brindisi la centrale elettrica a carbone ha la data di scadenza in evidenza e la chimica richiede una riconversione sostenibile e credibile. C’è un piano fattibile dopo la sciagurata stagione dei “no” opportunamente mandata in archivio dagli elettori?
Come se ne esce? Parlando innanzitutto il linguaggio della verità. Inutile girare attorno a discorsi futuribili, privi di ancoraggio con l’oggi e con il concretamente possibile. Non si possono mortificare le professionalità e le capacità di lavoratori e imprese facendo affidamento su improbabili cavalieri esteri e su continue prese di tempo, in attesa che accada non si sa bene quale miracolo.
Le crisi non sono frutto – o almeno non interamente – dell’azione politica del governo Meloni ma tocca a chi sta oggi a Palazzo Chigi indicare la strada e prendere decisioni, anche quelle dolorose. Togliere dalla tolda di comando dell’ex Ilva il precedente management targato Morselli è stato coraggioso e opportuno, i commissari Fiori-Quaranta-Tabarelli hanno cambiato verso a una azienda che era sull’orlo della chiusura. Ora bisogna però stringere i tempi e verificare se davvero il complesso aziendale ex Ilva può avere un futuro nella sua interezza oppure se ci si avvia a quello spezzatino che alcuni scongiurano e altri auspicano.
Il tempo sta per scadere e Taranto – malgrado una classe politica capace di avvitarsi per settimane unicamente sulle poltrone perse e quelle guadagnate – non merita alcuna forma di decrescita dopo aver contributo per decenni alla crescita dell’Italia.
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