Mafie in Friuli Venezia Giulia: come uscire dall’indifferente convivenza

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La criminalità organizzata nel nord Italia: un argomento talvolta considerato tabù o addirittura occultato dall’opinione pubblica, è stato al centro dell’evento “Mafie in FVG, come affrontarle?”, tenutosi il 6 dicembre 2024, dalle 20:15 alle 22:15, presso la Sala Degan della Biblioteca Civica di Pordenone. Organizzato dall’Associazione Culturale “La Mafia Non È Solo Sud”, l’incontro ha rappresentato un’importante occasione per approfondire un fenomeno sempre più rilevante anche nelle regioni settentrionali come il Friuli Venezia Giulia.
Durante il dibattito, sono intervenuti esperti di primo piano: il dottor Antonio De Nicolo, ex procuratore capo della Dda di Trieste, e la giornalista Luana De Francisco, coautrice dei libri Mafie a Nord-Est e Crimini a Nord-Est. Entrambi hanno offerto un quadro approfondito sulla presenza delle organizzazioni criminali nella regione, analizzando le dinamiche, le infiltrazioni nei settori economici e i rischi per il tessuto sociale. A moderare l’incontro è stato Davide Tasson, presidente dell’associazione organizzatrice dell’evento.
Non c’è percezione e non c’è consapevolezza del fenomeno mafioso, non se ne parla più, se ne scrive sempre meno… È stata pubblicata l’ultima relazione semestrale della Dia…5 righe, 10 righe sul Friuli Venezia Giulia”, ha detto la De Francisco spiegando che le organizzazioni criminali si sono mosse scegliendo di andare nelle zone dove si sentivano sicure, dove riuscivano a mimetizzarsi e dove c’era una certa “pax sociale”. In sostanza se il nord-est “non è terra di mafia” lo diventa nel momento che le organizzazioni criminali “hanno interesse a mettere in circolo il denaro delle attività illecite”.

Basti pensare a quello che è successo in Emilia con 250 imputati di cui solo una parte riconducibile alla matrice calabrese Ndranghetista, al grande Aracri”, gli altri erano autoctoni cittadini dell’Emilia, imprenditori, giornalisti, uomini delle forze dell’ordine”, ha continuato la giornalista, citando l’inchiesta “Grimilde” sulla ‘ndrangheta in Emilia Romagna, condotta dalla Direzione Antimafia di Bologna, che identificò, appunto Francesco Grande Aracri come figura chiave nell’adattamento della mafia calabrese al contesto emiliano. Ritenuto il “simbolo della ‘ndrangheta in Emilia,” è stato accusato di aver trasformato le modalità operative della cosca, puntando su infiltrazioni economiche e imprenditoriali, evitando azioni violente eclatanti per mimetizzarsi nella società civile.
La mafia viene portando soldi e servizi calpestando qualsiasi forma di concorrenza. Cerca di mimetizzarsi e amalgamarsi nella società, dialogando con le istituzioni e le forze economiche”, ha concluso la De Francisco.
Sul tema è intervenuto successivamente De Nicolo, analizzando il fenomeno delle infiltrazioni mafiose in ambito economico e sociale.
Le mafie tradizionali hanno capito che la società non deve essere fronteggiata a viso aperto, deve essere corteggiata per farsi accettare. Il tessuto sociale le accetta per convenienza”, ha detto l’ex procuratore capo della DIA di Trieste, evocando come esempio, un caso ormai comune che riguarda le aziende di smaltimento dei rifiuti, dove le cosche si inseriscono spesso proponendo il prezzo più basso e dunque più concorrenziale, talvolta senza destare sospetti sulla natura illecita del trattamento che – se legato a materiale di scarto di tipo tossico, nocivo – andrà a gravare sulla salute pubblica per le generazioni a venire.
Per quanto riguarda le tecniche investigative atte a contrastare il fenomeno, l’ex PM ha denunciato la nuova legge sulle intercettazioni, in discussione alla Camera, che limita l’uso di ascolti telefonici e ambientali a 45 giorni, con proroghe concesse solo in caso di nuovi elementi. Una misura, criticata da magistrati e giuristi, che rischia di ostacolare le indagini su reati gravi come omicidi, estorsioni, spaccio e truffe, equiparandola quasi a un “divieto a indagare”.
Per dirvi la pericolosità di certi ripiegamenti normativi, vi posso raccontare un’indagine di molto tempo fa in cui due malavitosi – che si capiva se facevano dei reati – quando stabilivano di incontrarsi per esempio giovedì 5 alle 17 e il loro codice stabiliva che venivano a spostare di due giorni e due ore l’appuntamento, quindi giovedì 5 alle 17 voleva dire sabato 7 alle 19… Prima di capirlo, gli investigatori ci hanno messo 3 mesi”, ha spiegato De Nicolo.

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Un altro tema importante affrontato riguardava il fenomeno del caporalato e dello sfruttamento lavorativo, che si manifesta in diversi settori, dal lavoro nei cantieri navali e agricoli al turismo di lusso e ai laboratori clandestini. È stato sottolineato come lo sfruttamento sia reso possibile da meccanismi come i subappalti che, di fatto, vengono adoperati per sottrarre diritti fondamentali ai lavoratori, spesso stranieri, costretti a condizioni disumane.
La sfida è quella di restituire dignità a queste persone, a questi lavoratori, purtroppo se ne sa poco niente, questa è una sistematica sottrazione di diritti e di tutele ed è favorita, almeno per quelli che abbiamo esaminato noi, è favorita assai dal ricorso ai subappalti…Nel momento in cui tu un appalto puoi spacchettarlo, frazionarlo in tanti subappalti, non fai altro che aumentare i segmenti che devono essere controllati e aumentano anche i margini nei quali può annidarsi una sottrazione di tutele per i lavoratori”, ha detto nel merito la De Francisco.
Tra le proposte avanzate per contrastare il fenomeno della criminalità organizzata si è evocata la possibilità di costruire osservatori antimafia a livello comunale che possano stimolare la curiosità e l’attenzione sul territorio, raccogliendo informazioni e segnalando anomalie.
A conclusione dell’evento, sono state evocate le dichiarazioni rese nell’interrogatorio del 30 gennaio 2015 da Vittorio Foschini, elemento di spicco della ’ndrangheta milanese, che ben evidenziano la gravità dell’infiltrazione mafiosa nel Nord-Est, già dagli anni 90’:
Avevamo dei collegamenti con la ’ndrangheta in Veneto, con la ’ndrina di Cutro e ci sono poi i Di Stefano a Trieste, dove c’erano i napoletani e i casalesi che operavano a livello di spaccio, di costruzioni… In quegli anni più che fare il possesso in Friuli, si investiva. Io mi ricordo di una discoteca sul mare a Trieste, dove si ballava il liscio. E di pescherecci di proprietà della ’ndrangheta e dei napoletani che partivano dalla Slovenia e portavano a Trieste o a Monfalcone armi ed eroina. Erano armi pesanti, Mg, kalashnikov, bazooka usa e getta e, quando arrivavano, venivano occultate dentro Range Rover. Si facevano anche acquisti di cento milioni di lire e servivano per andare a colpire in giro con le autovetture blindate. Avveniva tutto sotto traccia: loro invisibili e il mondo attorno a loro cieco. «La ’ndrangheta, quando entra in una regione vergine come il Friuli, comincia a comprare appartamenti e li intesta a soggetti incensurati, teste di legno, uomini d’onore stanziali in quella terra”, affermava Foschini, citato nel libro Crimini a Nord-Est.

Foto © Francesco Ciotti

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