Sardi On The Road | Musu: “Dalla Sardegna a New York: la mia vita a stelle e strisce”

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Da Santa Giusta a Manhattan. Nell’ambito della rubrica “Sardi on the Road” abbiamo fatto due chiacchiere con Sebastiano Musu, attaccante esterno classe 2000 nato a Oristano, che ci ha parlato della sua formazione nel calcio e nel percorso universitario: dall’esordio da ragazzino nel calcio dei grandi alla sua esperienza tra studio e sport negli Stati Uniti, nella “Manhattan University” di New York City.

Sebastiano, iniziamo questa intervista ripercorrendo tutte le tappe del tuo percorso calcistico. Come hai iniziato la tua carriera nel calcio?
“Ho iniziato a giocare nell’Oristano Calcio all’età di 4 anni. Fin da subito ho sempre diviso il campo con ragazzi più grandi di me, precisamente con la leva del 1999. Dopo l’esperienza all’Oristano Calcio, sono passato al Cagliari quando ancora c’era Gianfranco Matteoli al vertice del settore giovanile, per poi giocare con la Simba e successivamente con il La Palma Monte Urpinu. Ho trascorso un anno all’Oristanese, nel 2014. In seguito sono approdato alla Tharros e da lì sono passato al San Teodoro in Serie D come fuoriquota. Non avrei neanche potuto essere considerato tale, ma a soli 16 anni giocavo già in Serie D. Durante quel periodo, ho avuto l’opportunità di essere convocato nella Rappresentativa di Serie D. Successivamente, per una scelta personale, sono tornato in Promozione con l’Arborea, rinunciando alla possibilità di andare al Lanusei, protagonista di un’ottima stagione in Serie D quell’anno. Ho fatto anche parte della formazione juniores della Sardegna che ha partecipato al Torneo delle Regioni nel 2019. Dopo questa esperienza, sono tornato in Eccellenza con il La Palma, prima di rientrare nuovamente alla Tharros. Nel 2019 ho giocato di nuovo a Cagliari con il La Palma, ma con l’arrivo del Covid nel 2020 sono tornato alla Tharros, in Prima categoria. Ad agosto di quell’anno ho deciso di trasferirmi negli Stati Uniti, dove ho trascorso un triennio alla Campbellsville University, in Kentucky. Recentemente, mi sono trasferito alla Manhattan University, che si trova a New York City, per proseguire sia gli studi che il percorso calcistico”.

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Riguardo la tua esperienza con il Cagliari sotto la guida di Gianfranco Matteoli, qual è stato il momento più significativo o emozionante che ricordi?
“Ricordo con piacere un torneo in cui abbiamo battuto la Juventus, un momento davvero speciale. Ma più in generale, l’esperienza in rossoblù dal 2009 al 2014 è stata unica: ho avuto la possibilità di conoscere compagni che ancora oggi ricordo con affetto. Il Cagliari rappresenta un capitolo molto bello della mia carriera e quando ci si rivede con i ragazzi di quel gruppo è sempre un’emozione speciale. Anche gli allenatori e i dirigenti che ho avuto sono stati figure importanti, l’esperienza complessiva è stata davvero significativa”.

Durante il tuo percorso c’è stato un giocatore magari poco noto che ti ha sorpreso, aiutato o stimolato a dare il meglio di te?
“Guarda, se devo scegliere un giocatore, dico sempre mio padre, Antonello. Lui ha giocato a calcio a buoni livelli in Sardegna e anche nella Tharros. Mi ha aiutato molto, insegnandomi come allenarmi, come mangiare correttamente e, in generale, come dare sempre il massimo negli allenamenti. Lo considero un punto di riferimento e un’immagine importante nella mia vita. Purtroppo non ho mai avuto la possibilità di vederlo giocare, perché ha smesso prima che io potessi farlo, ma sarebbe stato bello poterlo vedere in campo. È stato lui a trasmettermi l’amore per questo sport, oltre che la passione per l’Inter. Insomma, è sicuramente la persona che mi ha ispirato maggiormente. E ti dirò, forse dovrei ascoltarlo ancora di più di quanto faccio già! (ride, ndr)”.

Come hai maturato la scelta di partire negli Stati Uniti?
“Nel 2018 sono stato contattato per la prima volta da un’agenzia chiamata USA College Sport tramite Instagram. Devo ammettere che inizialmente non ci ho dato troppo peso, pensavo fosse qualcosa di poco serio. Però nel 2019 mi hanno ricontattato, e allora ho iniziato a considerare l’idea. Parlandone con mia mamma e mio padre, mi sono detto: “Perché no? Non ho niente da perdere, proviamoci!”. Ricordo che nel 2019, appena terminate le scuole superiori, ho partecipato a un meeting a Roma per un primo provino. Dopo averlo superato, mi hanno invitato a Chiavari per una seconda selezione. Là c’erano diversi coach di università importanti, come il Boston College e altre scuole prestigiose. Alla fine sono stato selezionato tra i migliori undici e mi hanno offerto una borsa di studio completa. Ricevere questa opportunità è stato come un sogno. Ho letto la vostra intervista a Niccolò Cabras, che parlava delle difficoltà di conciliare scuola e calcio in Italia, soprattutto all’università: ha perfettamente ragione. Già alle scuole superiori può essere complicato, figuriamoci dopo. Per questo l’idea di andare negli Stati Uniti era qualcosa di unico. Ho sempre amato l’inglese e sognato di impararlo, questa era l’occasione perfetta: studiare in una scuola americana, vivere dall’altra parte del mondo, incontrare persone provenienti da culture e paesi diversi. Per me era un’opportunità incredibile da cogliere al volo. Così sono partito per gli Stati Uniti, inseguendo questo sogno”.

È difficile conciliare lo sport, nel tuo caso il calcio, con lo studio? Richiede un’organizzazione particolare, come in tutte le cose, o in America esiste un modello differente che rende questo più facile?
“Certo, ci vuole sicuramente un’organizzazione, perché devi gestire sia gli impegni scolastici che quelli sportivi. Tuttavia, in America è tutto molto semplificato dal fatto che i professori sanno che sei un atleta. Quindi, se sei in stagione, può capitare di saltare qualche lezione, ma queste assenze vengono giustificate. Ad esempio, se c’è un esame in un giorno in cui sei impegnato, può essere spostato a un altro giorno, senza che i professori facciano problemi e questo è davvero positivo per me. In generale riesco a organizzarmi perfettamente, perché in base agli orari degli allenamenti posso pianificare le lezioni. Se mi alleno dalle 10 alle 12, so che posso prendere una lezione che inizi prima, magari alle 9, che di solito dura 50 minuti, oppure posso organizzarmi per il pomeriggio. Quindi sì, tutto sommato riesco a gestire bene sia lo sport che lo studio”.

Quali sono stati finora i momenti più significativi giocando al college?
“Quando sono stato alla Campbellsville University ho vinto i campionati nazionali, un traguardo che l’università non aveva mai raggiunto prima. Essere la prima scuola a conquistare quel titolo è stato qualcosa di straordinario. Inoltre, sono stato nominato All-American quell’anno, ed è stata una sensazione fantastica. In seguito, ho vinto due conference, ovvero due campionati, quando ho giocato in USL2, un campionato semi-professionistico che si svolge durante l’estate e in cui partecipano i migliori atleti dei college americani. Ho vinto due volte il campionato e siamo arrivati molto vicini alla vittoria del titolo nazionale. Nonostante avessi pianificato di tornare per giocare la scorsa estate, ho deciso di fare un internship a New York, un’opportunità che non potevo lasciarmi sfuggire”.

Qual è il tuo ruolo in campo, quali sono le tua caratteristiche principali, e quante reti sei riuscito a realizzare in questa stagione?
“Ho ricoperto il ruolo di esterno, scendendo in campo da titolare in 15 partite. Durante la stagione, ho messo a segno 6 gol e fornito 6 assist, totalizzando così 18 punti secondo il sistema di punteggio utilizzato nei college statunitensi, dove ogni gol vale 2 punti e ogni assist 1. Questo metodo è pensato per valorizzare sia i marcatori che gli assistmen. Grazie a queste mie prestazioni, sono stato il giocatore con il punteggio più alto della squadra. Tra le mie caratteristiche principali ci sono il tiro da fuori area, il dribbling, la rapidità e una buona tecnica individuale”.

Cosa ti piace maggiormente del sistema calcistico del college rispetto a quello italiano?
“Sicuramente il livello atletico è molto più elevato, poiché si basa molto sulla preparazione fisica, con allenamenti in palestra mirati a migliorare l’aspetto atletico. Si corre tanto, c’è molta intensità e fisicità, caratteristiche che forse in Italia non trovavo con la stessa frequenza. All’inizio della mia carriera in America mi sono trovato in difficoltà, perché gli atleti sono molto più preparati fisicamente e giocare due o tre volte a settimana non è facile. Questo aspetto, il livello atletico, mi ha impressionato parecchio. Abbiamo due palestre, una è riservata solo agli atleti, dove ci alleniamo insieme alla squadra, mentre l’altra è aperta a tutti gli studenti. Tuttavia, gli atleti hanno accesso a una palestra dedicata, dove possiamo concentrarci sui nostri allenamenti specifici. Un preparatore atletico ci fornisce programmi personalizzati, così ci alleniamo per migliorare le nostre capacità fisiche in modo preciso”.

Quali sono i pro e i contro del calcio americano?
“Un aspetto positivo è che, a livello collegiale, hai la possibilità di migliorarti sotto tutti i punti di vista. Ti offrono le strutture, i campi da calcio, la palestra, i preparatori atletici e fisici, risorse che in Italia non sono sempre facili da trovare. Per quanto riguarda gli svantaggi, sinceramente non ne ho riscontrati. Gli atleti qui sono molto supportati in ogni aspetto. Se hai bisogno di qualcosa, che sia un allenamento extra o lavorare su un aspetto specifico, come il tiro o il miglioramento fisico, hai sempre la possibilità di farlo. I preparatori sono sempre pronti a lavorare con te per aiutarti a raggiungere il tuo massimo potenziale, quindi non vedo veri ‘contro’ in questo sistema”.

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Da quando ti sei trasferito negli Stati Uniti quali sono state le difficoltà principali che hai dovuto affrontare?
“Sicuramente la prima difficoltà è stata la lingua. All’inizio non ho sofferto molto per la lontananza da casa, però, sai, arrivare in un paese straniero e parlare una lingua che non è la tua, soprattutto quando si tratta di comunicare con persone madrelingua, è stato un bel cambiamento. Parlando l’inglese a scuola avevo imparato le basi, ma parlare con persone in America o in Inghilterra è tutta un’altra cosa. La lingua è stata una difficoltà all’inizio. Poi, però, i miei compagni di squadra e il coach sono stati fantastici, mi hanno aiutato tanto, sia nel capire la lingua che nel migliorare il mio inglese. Nei primi tre mesi ho visto già un enorme miglioramento. Successivamente, ho cominciato a sentire di più la lontananza da casa, dai miei familiari e dagli amici, ma mi sono abituato. Quando sono andato a Campbellsville, ero più giovane, avevo 18-19 anni, e all’inizio è stato un po’ più difficile. Ma quando sono arrivato a Manhattan College, a New York, è stato più facile adattarmi. Anche se devo ammettere che il trasferimento non è stato indolore: dopo tre anni in un’altra università avevo già creato legami con amici e conoscenti, e tornare a ricominciare da capo come junior, rifacendo amicizie e conoscendo nuove persone, non è stato facile”.

Che percorso di studi hai deciso di intraprendere?
“Pur avendo scelto di intraprendere il percorso nel marketing, ho sempre coltivato una grande passione per la finanza. Quest’estate sono riuscito a ottenere un internship in un’azienda di investimenti nel cuore di Manhattan. Lavorare in un grattacielo al quarantesimo piano per una società di questo calibro è stata un’esperienza straordinaria. Anche se il mio cammino si sia orientato verso il marketing, la finanza resta una passione che continuo a seguire con entusiasmo. Quell’internship è stata un’esperienza che ha davvero cambiato la mia vita. Lavorare in un ambiente così dinamico e stimolante mi ha offerto un’opportunità unica di crescita professionale e personale, ed è stata un’esperienza che ricorderò per sempre”.

Qual è stato l’allenatore che ti ha aiutato di più nella tua carriera calcistica?
“Ho avuto la fortuna di essere stimolato da molti allenatori nel corso della mia carriera. In particolare, Maurizio Firinu all’Arborea è stato fondamentale per la mia crescita, insegnandomi davvero tanto. Anche Maurizio Nulchis alla Tharros ha avuto un ruolo importante. Inoltre, gli allenatori che ho avuto al campus della Manhattan University mi hanno sempre motivato a migliorare me stesso e a proseguire sulla strada che ho intrapreso”.

Quali sono i sogni che hai nel cassetto e, se c’è, qual è il rimpianto più grande che senti?
“Ho tanti sogni, uno dei quali è sicuramente quello di diventare un giocatore professionista. In effetti, ho già alcuni contatti con scuole che mi hanno già chiamato a livello professionistico per svolgere una futura carriera qua. Tuttavia, dovrò fare delle scelte importanti, poiché ho anche delle possibilità a livello lavorativo. Sarà una decisione difficile, ma dipenderà da come evolveranno le cose e dalle opportunità che si presenteranno. Non ho rimpianti, perché finora la mia vita mi ha portato a fare esperienze che considero uniche e che ogni ragazzo dovrebbe avere la possibilità di vivere, se ne ha l’opportunità. Il calcio, come qualsiasi altro sport, ti toglie delle possibilità, ma allo stesso tempo mi ha dato tantissimo: mi ha permesso di venire in questo paese, di studiare e formarmi grazie a una borsa di studio, oltre a conoscere persone provenienti da culture diverse”.

Segui il calcio sardo? Negli Stati Uniti, il calcio italiano e quello sardo sono conosciuti?
“Qui conoscono il calcio europeo, ma quando parlo di calcio sardo conoscono il Cagliari, soprattutto perché gioca in Serie A. Sono abbastanza informati sul calcio europeo, che è molto seguito. Per quanto mi riguarda seguo sempre il calcio sardo: controllare i risultati mi tiene sempre aggiornato. Sono tifoso dell’Inter, la squadra del mio cuore, ma ovviamente tifo anche per il Cagliari, che è la squadra della mia terra”.

Se dovessi ringraziare una persona per il supporto ricevuto nella tua carriera, chi sarebbe?
“Senza dubbio, i miei genitori: mio padre e mia madre sono le persone che mi hanno sempre spinto a dare il massimo e a seguire ciò in cui credevo, sostenendomi in ogni passo e in ogni mia scelta”.

Cosa ti manca di più della Sardegna?
“Ciò che mi manca di più della Sardegna è senza dubbio la famiglia, gli amici e, soprattutto, il mare, che per me è fondamentale. Dopo aver trascorso due anni senza poter tornare d’estate, quando l’unica occasione di rientro era a dicembre, è stato davvero difficile. La Sardegna è una terra meravigliosa in ogni stagione, ma l’estate ha un fascino unico. Non poter tornare durante quel periodo è stata senza dubbio la parte più dura. L’ultima estate sono riuscito a tornare per venti giorni a maggio, ma ovviamente è un periodo brevissimo. Le altre due estati, invece, non sono riuscito a rientrare affatto, facendo ritorno solo a dicembre, dopo un intero anno lontano”.

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Hai qualche pensiero finale che vorresti condividere?
“Vorrei dire a tutti i ragazzi più giovani che vogliono intraprendere questo percorso di non lasciarsi sfuggire l’opportunità, perché lo sport, non solo il calcio, offre incredibili possibilità. Esistono agenzie che ti supportano e ti aiutano a realizzare i tuoi sogni. Personalmente, lo sport mi ha dato l’opportunità di vivere esperienze straordinarie, come quella di venire in America, dove ho avuto la possibilità di conoscere persone nuove e crescere”.

Matteo Cubadda






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