una scelta politica censurabile e costituzionalmente reprensibile

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1. L’ultima frontiera su cui il legislatore si è impegnato con il dichiarato intento di rafforzare la presunzione d’innocenza è il divieto di pubblicazione dell’ordinanza cautelare. Un intervento giustificato innanzitutto con la necessità di dare esecuzione agli obblighi derivanti dagli artt. 3 e 4 dir. 2016/343/UE. A tal fine, la legge di delegazione europea 21 febbraio 2024, n. 15, ha conferito mandato al Governo di «modificare l’articolo 114 del codice di procedura penale prevedendo il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero sino al termine dell’udienza preliminare»[1].

Eppure, non pare che le disposizioni europee invocate dal legislatore interessino il fenomeno della pubblicazione dei provvedimenti cautelari[2]. L’art. 3 dir. 2016/343/UE afferma che «gli Stati membri assicurano che agli indagati e imputati sia riconosciuta la presunzione di innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza»; un precetto che fissa come traguardo ultimo per la “tenuta normativa” della presunzione di innocenza la “prova legale” della colpevolezza. A ben vedere, il segmento cautelare e gli atti che lo caratterizzano possono essere compatibili – per modalità espressive e contegno lessicale – con il principio in questione; un obiettivo a cui il legislatore ha voluto assicurare anche con le innovazioni introdotte con il d.lgs. n. 188 del 2021, che per primo ha recepito la dir. 2016/343/UE[3]. Ma anche a voler adottare la prospettiva del legislatore delegante, non si vede come i traguardi procedimentali individuati – la fine delle indagini o dell’udienza preliminare – possano rappresentare momenti in cui si raggiunge la “prova della colpevolezza”.

L’art. 4 dir. 2016/343/UE impone, poi, che «le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole. Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità». A noi pare che la clausola di chiusura della disposizione – che rappresenta una eccezione al principio fissato al primo periodo – finisca per essere plastica rappresentazione del frangente processuale rappresentato dall’adozione di una misura cautelare[4].

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Ma non ai soli gli impegni di adeguamento all’ordinamento dell’Unione si è appellato il delegante. Altro parametro sovraordinato evocato per giustificare l’approvazione della novella è l’art. 27, comma 2, Cost., del quale si vorrebbe «assicurare l’effettivo rispetto» (art. 4, comma 3, l. n. 15 del 2024). Anche in questo caso, tuttavia, esistono strumenti in grado di contemperare il diritto all’informazione sul procedimento penale e la presunzione di innocenza diversi dall’imposizione di un “veto” alla divulgazione del testo dell’ordinanza cautelare. Oltre alla cautela espressiva, la precisazione in sede redazionale della natura provvisoria della misura, sottolineata dall’incedere condizionale (se questi gravi indizi saranno confermati, allora Tizio sarà verosimilmente condannato) potrebbe rappresentare un antidoto efficace rispetto alla protezione dell’art. 27, comma 2, Cost. nel procedimento de libertate[5].

Le ragioni individuate nelle disposizioni superprimarie non ci convincono, quindi, del fatto che la norma di cui si è chiesta e ottenuta l’approvazione fosse davvero funzionale a dare attuazione alla direttiva europea sulla presunzione di innocenza, né a rafforzare la protezione dell’omologo principio costituzionale[6]. Insomma, non erano né l’Europa né la Costituzione a chiederlo.

 

2. La delega è stata infine esercitata: l’art. 2 del decreto legislativo si limita, in effetti,  a intervenire sull’art. 114 c.p.p. disponendo l’abrogazione dell’ultima parte del comma 2, relativo alla espressa pubblicabilità per esteso dell’ordinanza cautelare, e introducendo un comma 6-ter, secondo cui, «fermo quanto disposto dal comma 7, è vietata la pubblicazione delle ordinanze che applicano misure cautelari personali fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare».

Si tratta di una inversione di rotta radicale rispetto a quella seguita dal d.lgs. n. 216 del 2017. Allora, si era inopinatamente prescritto che l’ordinanza cautelare non dovesse rientrare tra gli atti non più coperti da segreto di cui è vietata la pubblicazione, anche parziale, fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare (art. 114, comma 2, c.p.p.). Una scelta singolare perché mossa dalla convinzione che l’ordinanza cautelare sia in origine un atto segreto. Una convinzione giustificata, forse, dal fatto che sarebbe opportuno che così fosse, fino alla sua esecuzione: palesi esigenze di tutela della “buona riuscita” dell’atto vorrebbero che l’ordinanza cautelare e, ancor prima e ancor di più, la richiesta cautelare, fossero coperte da segreto. Eppure, così non era e così non è. Il novero degli atti segreti è individuato in base all’art. 329 c.p.p., al quale l’ordinanza e la richiesta cautelari non possono essere ricondotte, neppure in seguito alle modifiche in senso estensivo operate dal d.lgs. n. 216 del 2017. La disciplina sul segreto si riferisce ai soli atti di indagine, categoria alla quale non è a rigore possibile ascrivere i provvedimenti del segmento cautelare, che nel nostro sistema processuale hanno ratio connessa alla necessità – a tutto voler concedere – di salvaguardare la prova nel caso di cui all’art. 274 lett. a c.p.p., quando la permanenza in libertà dell’indagato la mette in pericolo. Ma non si tratta di una evenienza in grado di farci considerare gli atti in discorso come “di indagine”, tanto più che potrebbero essere compiuti in momenti processuali cronologicamente lontani dalla fase investigativa.

Nonostante il diverso approccio della giurisprudenza[7] e di una parte della dottrina[8], quindi, gli atti del procedimento cautelare non sono segreti poiché non esiste nessuna disposizione che lo preveda. In conseguenza di ciò, peraltro, il principio di tassatività che permea la materia penale comporta che l’art. 326 c.p. non sia applicabile a chi divulghi la richiesta o l’ordinanza cautelari.

Dunque, l’intervento del legislatore sarebbe necessario per conferire espressamente alla richiesta di cui all’art. 291 c.p.p. e all’ordinanza di cui all’art. 292 c.p.p. il crisma del segreto, fino all’esecuzione della misura, al fine di presidiarne penalmente la fruttuosa applicazione.

Ma, tornando alla novella, a conferma che l’ordinanza cautelare resta pubblicabile “nel contenuto” è, poi, l’odierno art. 114, comma 6-ter, c.p.p., là dove prescrive che il divieto di pubblicazione non incide sul precetto del successivo comma 7, che consente sempre la pubblicazione del contenuto degli atti non segreti, qual è, appunto, la decisione de libertate. Non, dunque, un veto assoluto alla conoscibilità dell’atto, che sarebbe costituzionalmente indifendibile, ma un divieto che attiene alla modalità di divulgazione.

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3. Non va trascurato che il testo inizialmente formulato dal governo prevedeva una differente modulazione del comma 6-ter dell’art. 114 c.p.p., che avrebbe dovuto riferirsi alle «ordinanze di custodia cautelare». E ciò in piena aderenza al tenore della legge delega, la quale più che un “principio” o un “criterio direttivo” – imposti dall’art. 76 Cost. – conteneva un precetto “self-executing”, tanto da farci interrogare sul perché non si sia preferito approvare direttamente una disposizione che ne traducesse in legge gli effetti[9].

Invero, ragionando in astratto e in aderenza ai ricostruiti intendimenti del legislatore, non si comprendeva perché escludere dal novero dei provvedimenti da non pubblicare testualmente anche «le altre ordinanze cautelari, come ad esempio quelle applicative di una misura interdittiva, la cui motivazione può risultare di ben maggiore pregiudizio per l’onorabilità del destinatario»[10].

In tal senso, infatti, si è espressa la Commissione Giustizia della Camera nel suo parere favorevole con osservazioni. Tra le modifiche proposte al testo del decreto legislativo si annovera quella che suggerisce al governo di valutare «l’estensione di tale divieto a tutte le misure cautelari personali, ovvero ad altri analoghi provvedimenti che, eventualmente, possono essere emessi nel procedimento cautelare, ovvero comunque a quei provvedimenti che, nella loro funzione, comportino una valutazione circa la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e la cui pubblicazione, dunque, produca analoghi effetti sovrapponibili a quelli della sola ordinanza di custodia cautelare»[11].

Si tratta di un indirizzo parzialmente condiviso dal legislatore delegato, che ha infine inciso nel testo del decreto legislativo il riferimento alle «ordinanze che applicano misure cautelari personali». L’interpolazione operata in “zona Cesarini” restituisce in parte coerenza a una scelta censurabile, ma fa emergere una vistosa carenza di legittimazione[12]. Esso pare fatalmente incostituzionale per eccesso di delega, che, come si è detto, menziona specificamente la sola «ordinanza di custodia cautelare», con ciò riferendosi alle sole misure personali coercitive custodiali: arresti domiciliari, carcere, istituti a custodia attenuata per detenute madri, luoghi di cura (artt. 284-286 c.p.p.)[13].

Si è consapevoli, certo, che la previsione di cui all’art. 76 Cost. «non osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo»[14]. Tuttavia, l’ampiezza della discrezionalità del governo è inversamente proporzionale al grado di precisione della legge delega: «quanto più principi e criteri direttivi impartiti dal legislatore delegante sono analitici e dettagliati tanto più ridotti risultano i margini di discrezionalità lasciati al legislatore delegato»[15]. E, in ogni caso, il perimetro posto dalla legge di delega deve essere delineato partendo dal «dato letterale»[16], che nel caso di specie è tanto puntale da escludere margini di discrezionalità del governo sotto il profilo dell’individuazione del novero degli atti di cui vietare la pubblicazione.

E poco importa che tale “limite” sia disarmonico rispetto alla ratio dell’intervento legislativo, magari dovuto a uno scadente e poco meditato drafting della legge di delega: l’interpretazione letterale precludeva di percorrere la via poi intrapresa dal governo. Si tratta, ancora una volta, del «volto di una politica irresistibilmente portata a debordare da ogni argine previamente fissato», come fosse «constitutioni soluta»[17].

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In definitiva, è facile prevedere la promozione di un giudizio di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 76 Cost. nel corso del primo procedimento penale in cui debba accertarsi la violazione del divieto di pubblicazione di un’ordinanza cautelare personale non custodiale.

 

4. Anche a tacere dell’operazione di rimodulazione realizzata in eccesso di delega, peraltro, non pare che il governo abbia risolto tutti i problemi all’orizzonte.

D’altronde, restano pubblicabili le ordinanze cautelari che applicano misure reali. Ma pure portando all’interno del perimetro del divieto di pubblicazione tutte le ordinanze cautelari, il sistema continuerebbe a disinteressarsi di altri provvedimenti non meno lesivi della presunzione di innocenza, a cominciare dalla richiesta del pubblico ministero, che immaginiamo essere per contenuti assai simile alla decisione che la accoglie. Dunque, la richiesta potrà continuare ad essere testualmente pubblicata, parzialmente o integralmente.

A cercare la ragione di questo discrimine, vien da pensare che il legislatore potrebbe aver differenziato il trattamento giuridico di atti “necessariamente” improntati ad una pur precaria affermazione di colpevolezza che tuttavia provengono da soggetti diversi: il pubblico ministero, accusatore pubblico la cui parzialità dichiarata incide limitatamente sulla “percezione” di innocenza dell’indagato; e il giudice, soggetto terzo e imparziale, le cui “parole” hanno un peso specifico maggiore in ordine alla incisione della innocenza presunta.

Se le cose stanno in questi termini, non si è a cospetto di un ragionamento ferreo. Vero è che la domanda del pubblico ministero proviene da una parte, ma è anche vero che essa si limita, appunto, a “chiedere”. Diversa è l’ordinanza con cui il giudice “decide”: questo è, in definitiva, il provvedimento che incide sulla libertà personale. D’altronde, potremmo anche immaginare il non infrequente caso in cui un’ordinanza cautelare accolga solo parzialmente le richieste dell’accusa, ridimensionando le incolpazioni, le esigenze cautelari, le misure adeguate al loro soddisfacimento. Anche ragionando fuor di esemplificazioni, non va dimenticato che la cronaca giudiziaria è funzionale ad attuare il potere di controllo del popolo sulla giustizia amministrata in suo nome (art. 101 Cost.), che proprio nella fase applicativa di un provvedimento incisivo della libertà personale dovrebbe trovare la sua massima espansione.

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E ancora: perché la sintesi dell’ordinanza cautelare operata dal giornalista dovrebbe essere meno pregiudizievole per la presunzione di innocenza rispetto alla pubblicazione del testo del provvedimento? Non pare che le parole del giudice, quando soppesate e inserite in un contesto in cui emerge chiaramente che la colpevolezza dell’indagato è ritenuta provvisoriamente, in base a elementi raccolti unilateralmente e da verificare nei successivi passaggi procedimentali, possano essere “più lesive” di quelle riassuntive del giornalista.

Piuttosto schizofrenico, poi, un legislatore che, da un lato, prescrive che «nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato, che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza, l’autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento» (art. 115-bis c.p.p.) e che, dall’altro lato, vieta la divulgazione di un atto formato secondo accorgimenti “redazionali” funzionali proprio a evitare lesioni della presunzione di innocenza[18].

Ci si chiede, allora, perché impedire la vigilanza diretta sull’operato del giudice e dei giornalisti, concedendo la possibilità di avere agevole accesso ad un atto che incide così significativamente sui diritti fondamentali. D’altronde, la stampa è un potere su cui vigilare al pari degli altri e tale vigilanza è possibile solo potendo confrontare il testo di sintesi con il testo sintetizzato. A pensar male, viene il sospetto che la vera ratio della delega risieda nella volontà di “scoraggiare” i cronisti giudiziari dal dare notizie una volta privati dello “scudo” rappresentato dalla lettera del provvedimento del giudice contro le querele degli indagati che si ritengono diffamati. Impossibile rimproverare al giornalista la pertinenza, la continenza e la veridicità quando usa le parole dell’ordinanza; diversa cosa, invece, imputare al cronista di aver malamente trasposto il contenuto dell’atto, magari utilizzando toni inadeguati.

Altra criticità risiede nel fatto che il divieto di pubblicazione testuale è destinato a operare fino alla conclusione delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare. Il che esclude logicamente le ordinanze cautelari – e le relative richieste – emesse durante il dibattimento o nei gradi di impugnazione. Si tratta, certo, di evenienze infrequenti. Ma la conclusione è illogica. Se lo scopo del legislatore era quello di mettere in sicurezza un precetto costituzionale da garantire fino alla sentenza irrevocabile di condanna (art. 27, comma 3, Cost.), non si vede perché non vietare anche la pubblicazione di un’ordinanza cautelare applicata in corso di giudizio.

Non ci sembrano secondarie, poi, alcune conseguenze paradossali del divieto appena introdotto. Di fronte ad una sintesi giornalistica distorta, diffamatoria o “colpevolista”, l’indagato stesso potrebbe avere interesse a che sia diffusa, a fini di rettifica, l’ordinanza del giudice. Una “operazione verità” impossibile, a meno che il giornalista – o l’indagato stesso, là dove voglia postarla su un social network – sia pronto a subire le conseguenze derivanti dalla pubblicazione vietata.

Che dire, poi, delle pubblicazioni su riviste scientifiche delle ordinanze cautelari? Anche la dottrina sarà costretta a operare una sintesi dei provvedimenti, a confezionare degli abstract, per poi provvedere al relativo commento. Un commento scevro di riferimenti precisi, magari essenziali, al testo del provvedimento.

Per queste e per altre criticità, già ai tempi della delega si era osservato che il legislatore avrebbe finito per «guarire un male con la medicina sbagliata, che rischia di generare un effetto collaterale più nefasto della patologia»[19]. Una cattiva terapia confermata dal testo giunto al traguardo della gazzetta ufficiale.

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5. Oltre all’ampliamento del novero degli atti non pubblicabili, il parere reso dalla Commissione Giustizia della Camera ha suggerito al governo di inserire nel provvedimento anche delle sanzioni realmente deterrenti con cui rispondere alla violazione del precetto. In particolare, la Commissione ha osservato che, «ferma restando l’esclusione di sanzioni detentive a carico del contravventore, il complessivo sistema sanzionatorio andrebbe comunque ripensato di modo da conferire effettività al divieto, e costituire un ragionevole argine alla sistematica violazione del medesimo, tanto alla luce della sperimentata ineffettività della attuale sanzione che presidia la violazione del divieto di pubblicazione, dettata dalla fattispecie contravvenzionale delineata dall’articolo 684 del codice penale (che si risolve nella possibilità di estinguere il reato attraverso l’oblazione con il versamento di una somma irrisoria) o dell’illecito disciplinare, raramente perseguito, previsto dall’articolo 115 del codice di procedura penale a carico degli impiegati dello Stato o di persone esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato». Alla luce di ciò, l’esecutivo è stato invitato a individuare «profili sanzionatori nuovi, anche attraverso il ricorso ad ulteriori strumenti, non esclusi quelli posti a presidio dal decreto legislativo n. 231 del 2001 recante la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive della personalità giuridica»[20].

In effetti, l’ordinamento penale reagisce alla violazione del divieto di pubblicazione con l’art. 684 c.p., che commina una sorta di «buffetto sanzionatorio» a chi pubblica in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa d’informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione[21].

Le osservazioni provenienti dall’organo legislativo, tuttavia, non sono state accolte. Anche in questo caso, peraltro, si sarebbe trattato di ritocchi viziati dall’eccesso di delega, che neppure implicitamente menzionava la possibilità di intervenire sull’apparato sanzionatorio.

Eppure, pare ragionevole che – se scisso dalla volontà di vietare la diffusione del testo delle ordinanze cautelari – il divieto di pubblicazione sia presidiato da sanzioni credibili. Sul punto, ad essere invocata non è tanto l’intensificazione della risposta penale, benché un adeguamento dell’ammenda comminata dall’art. 684 c.p. ai canoni economici del nuovo millennio sarebbe auspicabile[22], quanto la predisposizione di un effettivo meccanismo di reazione disciplinare per il giornalista, da calibrare necessariamente sul piano deontologico, e reputazionale per l’editore, da valutare su basi non solo squisitamente pecuniarie, attraverso l’adozione del meccanismo sanzionatorio del d.lgs. n. 231 del 2001[23]

 

6. Le ultime disposizioni introdotte non fanno altro che complicare una trama normativa già intricata e, ora, contraddittoria. Intricata, come quando il legislatore tenta di guidare la mano del magistrato nella redazione degli atti attraverso il labirintico meccanismo dell’art. 115-bis c.p.p. Contraddittoria, considerato che da un lato si impongono regole “redazionali” al giudice cautelare e, dall’altro lato, si proibisce la divulgazione testuale di un’ordinanza che si vuole depurata da iperboli colpevoliste.

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Più adeguata ci pare la proposta, da tempo avanzata da una parte della dottrina, di rispondere alla inadeguata esposizione mediatica degli indagati attraverso il “sindacato pubblico” di una Autorità di garanzia a struttura composita in grado di sanzionare anche con ricadute reputazionali chi, giornalista[24], magistrato o avvocato abbia indebitamente oltraggiato la reputazione di chi è stato coinvolto in un procedimento penale[25]; e potrebbe agevolare il raggiungimento dello scopo l’istituzione di una nuova articolazione di una autorità indipendente già esistente, come il Garante per la protezione dei dati personali o l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, così da contare su un apparato amministrativo già operativo.

Dobbiamo per ora accontentarci, invece, di una disciplina in cui «la presunzione di innocenza non risulterà maggiormente tutelata, come vorrebbero i suoi sostenitori, ma anzi più facilmente offuscata»[26].

 
[1] Su cui v. C. Gabrielli, È la stampa, bellezza. Note critiche al cd. “emendamento Costa”, in Quest. giust., 29 febbraio 2024.

[2] Dello stesso avviso è G. Giostra, Vietare la pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare: una proposta funzionalmente e sistematicamente in difficoltà di senso, in Sist. pen., 7 ottobre 2024.

[3] Su cui v. tra gli altri: N. Rossi, Il diritto a non essere “additato” come colpevole prima del giudizio. La direttiva UE e il decreto legislativo in itinere, in Quest. giust., 3 settembre 2021; G. Giostra, Un catechismo per atei. Una prima lettura del d.lgs. n. 188 del 2021, in Media Laws, 4 febbraio 2022; G. M. Baccari, Le nuove norme sul rafforzamento della presunzione di innocenza dell’imputato, in Dir. pen. e proc., 2022, p. 160; C. Gabrielli, Pubblico ministero, informazione giudiziaria e presunzione di non colpevolezza, in Quest. giust., 17 maggio 2022; C. Melzi D’Eril, Presunzione di innocenza: un diritto leso, buone intenzioni, una disciplina inadeguata, in Media laws, 4 febbraio 2022; F. Cassibba, J. Della Torre, E. N. La Rocca, F. Zacchè (a cura di), Le nuove frontiere della presunzione di innocenza, Wolters Kluwer, 2024.

[4] Come peraltro suggerisce la stessa direttiva europea, che al considerando n. 16 afferma che non dovrebbero essere toccate dalla normativa «le decisioni preliminari di natura procedurale, adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità, quali le decisioni riguardanti la custodia cautelare, purché non presentino l’indagato o imputato come colpevole».

[5] E ci pare una strada percorsa ancora di recente dal legislatore con l’introduzione dell’art. 115-bis c.p.p., poi menzionato infra in testo e su cui v. V. Aiuti, Correzioni “estetiche” delle sentenze, in F. Cassibba, J. Della Torre, E. N. La Rocca, F. Zacchè (a cura di), Le nuove frontiere della presunzione di innocenza, cit., passim.

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[6] Secondo A. Nappi, Contro le virgolette: il garantismo delle perifrasi, in Quest. giust., 19 marzo 2024, § 3, «la presunzione di innocenza, evocata dal richiamo all’art. 27 Cost. e alla direttiva (UE) 2016/343, peraltro già attuata con l’art. 115 bis c.p.p., non ha nulla a che vedere» con la pubblicazione delle ordinanze cautelari.

[7] L’esclusione genetica dal perimetro del segreto dell’atto cautelare non è, tuttavia, condivisa dalla giurisprudenza, che ha indirettamente affermato la violazione del segreto nell’ipotesi di propalazione di notizie attinenti all’esistenza di una richiesta di misura cautelare (Cass., sez. VI, 7 novembre 2011, n. 3523/12). Più risaliente, ma più esplicita, è Cass., sez. V, 3 ottobre 2002, n. 3896, in CED Cass., n. 224273.

[8] Da ultimo, A. Nappi, Contro le virgolette, cit., § 2, ha sostenuto che «le ordinanze adottate dal giudice a norma dell’art. 292 c.p.p. sulle richieste di misure cautelari del pubblico ministero sono sempre pubblicabili testualmente e per esteso, dopo che siano state eseguite a norma dell’art 293 c.p.p., perché, potendo averne solo così conoscenza l’imputato, non sono poi coperte da segreto investigativo».

[9] Così il testo dell’art. 4, comma 3, legge 21 febbraio 2024, n. 15: «Nell’esercizio della delega di cui al comma 1, il Governo è tenuto a osservare, oltre ai principi e criteri direttivi generali di cui all’articolo 32 della legge 24 dicembre 2012, n. 234, anche il seguente principio e criterio direttivo specifico: modificare l’articolo 114 del codice di procedura penale prevedendo, nel rispetto dell’articolo 21 della Costituzione e in attuazione dei principi e diritti sanciti dagli articoli 24 e 27 della Costituzione, il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare, in coerenza con quanto disposto dagli articoli 3 e 4 della direttiva (UE) 2016/343».

[10] Ivi, § 4.

[11] Parere del 16 ottobre 2024, in Atti parlamentari, Atto del Governo n. 196, seduta del 15 ottobre 2024, p. 31.

[12] Che si aggiunge, come detto, quella di una legge delega che trae “legittimazione” da una direttiva europea che non pare davvero chiedere che si intervenga in materia di pubblicazione degli atti del procedimento cautelare.

[13] In relazione a quest’ultimo aspetto, v. contra F. Morelli nell’audizione del 2 ottobre 2024 alla Commissione Giustizia della Camera, in Atti parlamentari, Atto del Governo n. 196, p. 4-5, secondo cui ad ampliare il raggio operativo della disposizione «non si dovrebbe temere l’eccesso di delega, quando si estende il divieto a tutte le cautele, o quantomeno a quelle personali, poiché come detto, è proprio il criterio direttivo delle delega che, se attuato pedissequamente, viola i suoi (e della direttiva EU) più alti obiettivi, ossia quelli della tutela a più ampio raggio della proiezione pubblica della innocenza presunta dell’imputato»; nello stesso senso ci pare orientarsi O. Mazza nell’audizione del 2 ottobre 2024 alla Commissione Giustizia della Camera, in Atti parlamentari, Atto del Governo n. 196, p. 5, che propone una modifica che vieti la pubblicazione di ogni ordinanza cautelare.

[14] Così, da ultimo, Corte cost., 25 luglio 2024, n. 149, seguendo il solco di consolidata giurisprudenza.

[15] Cfr., tra le altre, Corte cost., 12 giugno 1991, n. 259.

[16] Corte cost., 25 luglio 2024, n. 149.

[17] Così A. Ruggeri, A proposito di deleghe, delegificazioni (ed altro) e dei possibili rimedi volti a porre ordine nel sistema delle fonti, in Le deleghe legislative. Riflessioni sulla recente esperienza normativa e giurisprudenziale, Giuffrè, 2002, p. 2.

[18] In questi termini v. anche G. Giostra, Vietare la pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare, cit.

[19] C. Melzi D’Eril, G. E. Vigevani, Stop alla pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, ovvero come guarire un male con la medicina sbagliata, in Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2023.

[20] Parere del 16 ottobre 2024, in Atti parlamentari, Atto del Governo n. 196, seduta del 15 ottobre 2024, p. 31.

[21] G. Giostra, Il segreto estende i suoi confini e la sua durata, cit., in G. Giostra, R. Orlandi (a cura di), Nuove norme in tema di intercettazioni. Tutela della riservatezza, garanzie difensive e nuove tecnologie informatiche, Giappichelli, 2018, p. 132.

[22] Ad esempio, pur escludendo che possa essere preso a modello in relazione alle pene detentive, potrebbe essere d’ispirazione il c.d. progetto di riforma c.d. Gratteri, in punto di intercettazioni. In quel contesto, al fine di predisporre una «forte ed efficace deterrente alla illegittima divulgazione di stralci a contenuto diffamatorio estranei al tema delle indagini e del processo», si proponeva di inserire nel codice penale una fattispecie di reato denominata “pubblicazione arbitraria di intercettazioni” (art. 595-bis c.p.), che avrebbe punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 2.000 ad euro 10.000 «chiunque, fuori dei casi consentiti, pubblica o diffonde in qualsiasi modo il testo d’intercettazioni di conversazioni telefoniche o altre forme di comunicazione, ovvero di corrispondenza acquisita agli atti di un procedimento penale, il cui contenuto abbia portata diffamatoria e che risulti manifestamente irrilevante a fini di prova». In generale, sul progetto di riforma Gratteri, v. le puntuali e condivisibili osservazioni di F. Caprioli, Brevi note sul progetto Gratteri di riforma della disciplina delle intercettazioni, in Cass. pen., 2016, p. 3981 ss.

[23] In tal senso, nell’audizione svolta il 2 ottobre 2024 presso la Commissione Giustizia della Camera, O. Mazza, il quale invoca, oltre al ritocco dell’art. 684 c.p., anche l’inserimento del reato tra quelli che danno luogo all’applicazione della responsabilità amministrativa da reato dell’ente, ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001. In precedenza, v. G. Giostra., La nuova tutela della privacy ovvero l’assai scadente traduzione giuridica di un proponimento condivisibile, in G. Giostra, R. Orlandi (a cura di), Revisioni normative in tema di intercettazioni comunicative. Riservatezza, garanzie e nuove tecnologie informatiche, Giappichelli, 2020, p. 154-155.

[24] L. Ferrarella, Il “giro della morte”: il giornalismo giudiziario tra prassi e norme, in Dir. pen. cont., 2017, n. 4, p. 15 ss., rileva che nei confronti degli organi di informazione, più delle sanzioni pecuniarie o deontologiche, potrebbe avere maggiore effetto deterrente l’obbligo di segnalare ai lettori che la fonte giornalistica a cui fanno affidamento non ha osservato un basilare principio costituzionale.

[25] Così, da ultimo, G. Giostra, Vietare la pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare, cit., 7 ottobre 2024.

[26] G. Giostra, Il divieto insensato che Meloni vuole applicare alla stampa, in Domani, 6 gennaio 2024.





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