“Vorrei che mia figlia sapesse che ho cercato di lasciarle un mondo migliore”

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Un memoir di un reporter militante, che si interroga su cosa sia il mestiere giornalistico, ripercorrendo la sua stessa vita professionale. Formatosi nella redazione del “Giornale del Sud”, fino ad approdare come autore a “La vita in diretta”, Michele Gambino ha viaggiato per il mondo, conducendo importanti inchieste e diventando testimone del nostro tempo

Quali sono le qualità professionali del giornalista, quelle che non si insegnano in nessuna scuola di giornalismo? Leggendo Un pezzo alla volta. Storia di un giornalista e del suo tempo di Michele Gambino (Manni editore), memoir di un giornalista “militante” e racconto di vita picaresca, viene in mente il bellissimo titolo di un libro dello scrittore polacco Ryszard Kapuscinski: Il cinico non è adatto a questo mestiere.

Il mestiere di giornalista, specie quello legato alla cronaca, ha a che fare con una materia spesso torbida, e con richieste altrettanto torbide del suo pubblico, eppure le qualità richieste sono empatia, gusto della condivisione e amore per la giustizia. Quando Gambino si trova a fare l’autore della “Vita in diretta”(Rai) sa bene che gli spettatori vogliono morti ammazzati in maniera misteriosa, sentimenti edificanti con risvolti religiosi, sdegno forcaiolo verso soggetti deboli (non Toto Riina ma il piccolo truffatore o il pirata della strada), tuttavia riesce a conservare una propria integrità, e almeno ci prova a non incarognire il pubblico.

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Gambino nasce professionalmente giovanissimo con Giuseppe Fava al Giornale del Sud di Catania, un giornalismo coraggioso di denuncia che contribuì a far nascere il movimento anti-mafia, poi nella importante rivista I siciliani. Quando Fava – il “Solzenicyn catanese” – viene ammazzato dal boss Santapaola, lui continuerà per un po’ il progetto di rivista anche con il figlio del grande giornalista, Claudio. Poi farà parte di Avvenimenti di Claudio Fracassi (60mila copie nel 1994, legata 400 circoli), poi Tiscali, Rai e varie esperienze lavorative, sempre inframezzate da periodi di disoccupazione, di un ozio forzato e a volte cercato. Come se in lui abitassero due nature: una ricerca ostinata della verità, sempre contro il potere – direbbe Sciascia -, contro i poteri politici, criminali, economici, militari, mafiosi, e un’attitudine contemplativa. Impegno civile coerente e un’accidia meditativa, dolcissima e molto meridionale.

Come Kapuscinski, Gambino ha visto decine di guerre, rivoluzioni, cadaveri, stragi impunite e ha pubblicato una dozzina di libri, dato che scrivere è la cosa che gli riesce meglio: nella maturità ha anche capito che una scrittura sostenuta solo dall’indignazione rischia di degradarsi a retorica, meglio invece cercare un tono più epico e “oggettivo”. È anche un finissimo ritrattista, come dimostra il personaggio di Nelson, potente esmeraldero colombiano, consumatore compulsivo di cocaina e suo amico per un anno: “un tipo smodato, allegro, determinato, instancabile, generoso in maniera quasi patologica”. Ha viaggiato per il mondo, tra Maghreb e Medio Oriente, Iraq e Afghanistan (su cui scrisse un reportage vincitore del Premio “Ilaria Alpi”), tra ex Jugoslavia e Colombia (dove portandosi la figlia apre un ristorante)

. È stato un testimone del nostro tempo sempre coinvolto, anche drammaticamente, negli eventi (un po’ come Oriana Fallaci, che esordì staffetta partigiana e combattè i colonnelli greci, per poi finire – per colpa dell’ultimo, viscerale ma infelice pamphlet – nel pantheon dell’estrema destra attuale): spericolate inchieste sul campo e clamorosi scoop (fu il primo a ipotizzare che i banditi della “Uno bianca” fossero appartenenti alle forze dell’ordine), decine di querele (tra cui quella, da lui persa, intentata da Previti, poi giudicato colpevole, mentre Andreotti, su cui scrisse un libro acuminato, non lo querelò mai) e smascheramento di ingegnose fake news, come quella dell’eccidio deciso dal Presidente rumeno Nicolae Ceausescu e mai avvenuto (una “realtà aumentata” dai rivoltosi, una messinscena che ingannò il sistema dell’informazione mondiale). In qualche caso lo hanno seguito e raggiunto i criminali tirati da lui in ballo, per avviare un dialogo.

L’autobiografia, che è un pezzo di storia dell’Italia contemporanea, è anche scandita da riflessioni politiche, quasi sempre di sapore autocritico, ad esempio quando nota che la underdog Giorgia Meloni, distante da lui anni-luce, ha ragione su un punto: “Noi guardiamo dall’alto in basso lei, la sua coalizione e anche tutti quelli che la votano. È il nostro vizio segreto, ma non ci possiamo fare niente” (in realtà potremmo farci qualcosa, basta scegliere bene i propri modelli: Camus – peraltro qui rievocato -, Orwell e Nicola Chiaromonte non hanno mai guardato nessuno dall’alto in basso). Osserva pure di essere attratto dalla guerra “perché ci dice chi siamo” contro ogni ipocrisia e contro la noia della routine quotidiana.

Capisco le sue ragioni ma la guerra dice solo una parte della nostra verità: le va contrapposto non tanto l’ipocrisia quanto la felicità ordinaria della routine a cui ci strappa con violenza (perfino l’Iliade non dimentica mai di evocare tutto quello a cui ci sottrae la guerra). Nelle pagine conclusive svolge una meditazione crepuscolare sull’esistenza, sulla gioia per aver compreso alcune verità fondamentali e per aver conservato la propria libertà, sulla tristezza legata a occasioni mancate e vite non vissute. Infine, dopo aver dichiarato con giusto orgoglio di aver combattuto molte battaglie (alcune delle quali perse) scrive di “poter dire a mia figlia che ho provato a consegnarle un mondo migliore, e almeno ho cercato di non essere tra quelli che lo hanno reso peggiore”.

Condivido pienamente la seconda parte dell’enunciato, mi permetto invece di obiettare alla prima parte, che tradisce una hybris comprensibile ma irrealistica: il mondo infatti non lo cambia nessuno, né verosimilmente lo migliora nessuno. È continuamente mutevole però non modificabile. Neanche i potenti lo plasmano, come tra gli altri si illuse Napoleone, per questo ridicolizzato impietosamente da Tolstoj. Il mondo continua a girare con il suo ritmo segreto, ciclico ed eterno, per tutti noi imperscrutabile. Certo, possiamo e dobbiamo fare in modo di non peggiorarlo. Questo sì. Ognuno risponde alla propria coscienza e si impegna in quella che ritiene la sua vocazione, ma con una assoluta indifferenza al risultato (che non dipende mai solo da noi), come il protagonista della Bhagavadgita induista. Michele Gambino non lo ha peggiorato, su questo siamo certi.



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