Europa in bilico: la sfida di un destino comune tra sovranismo e crisi spirituale

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di Giovanni Cominelli

Ogni tanto la Storia bussa, a sorpresa, alle nostre porte e ci squarcia nuovi scenari e lampi di speranza. Gli eventi siriani sono oggi la Storia.
Stanno al punto di intersezione di molte cause, che gli analisti di tutto il mondo ci stanno spiegando, e di molti nuovi effetti. Spesso queste analisi sono condotte in nome di un lucido “senno di poi”.
Il fallimento delle “primavere arabe” rende tutti più cauti sulle previsioni. Paolo Gentiloni si è detto in attesa di capire, in questa nuova condizione, quale sia la padella e quale sia la brace. A noi Italiani finora è andata bene: abbiamo perso tre auto dell’Ambasciata.
Gli Usa stanno discretamente a guardare, con qualche bombardamento sulle residue basi Isis, i Russi tremano per le basi navali di Latakia e Tartus, la Turchia e Israele festeggiano, la mezza luna sciita è stata spezzata, l’Iran si lecca le ferite.
Forse Hamas restituirà degli ostaggi. Di ciò preso atto, occorre tenere presente che il Medioriente è, almeno da quattromila anni, l’area più conflittuale del pianeta: più grandi gli scontri di civiltà e di religioni e più intensi e più sanguinosi i conflitti. Basta un soffio di vento per scombinare le tessere del puzzle, rovesciare alleanze, passare ai massacri.

Sovranisti immaginari e sovranisti reali
E l’Unione europea? Si è ridotta a scrivere delle note a margine degli avvenimenti. Dopo il fiasco libico del 2011 e il disastro del Libano ha scelto i margini. Ma i motivi non sono affatto nobili. Esistono, infatti, due tipi di sovranismo/nazionalismo in Europa. C’è quello immaginario di Le Pen, di Orban, di Salvini, di Meloni (?): il leopardiano “Io sol combatterò, procomberò sol io” diventa una sbruffonata.
Poi c’è il sovranismo/nazionalismo reale, quello degli Inglesi, dei Francesi, dei Tedeschi, degli Spagnoli, del Nord-Europa “frugale” e di Meloni (?). Tutti insieme abbarbicati ai propri poteri, continuano a rivendicarne una restituzione agli Stati nazionali, accusando al contempo la UE di impotenza.
Questa accusa non è del tutto infondata. Ma è l’effetto di una profezia che si autoadempie. L’UE è stata ridotta a occuparsi delle salmerie e delle mance alla PNRR, perché gli Stati europei hanno trattenuto, ciascuno per sé, le competenze-chiave: Politica estera, Difesa, Bilancio, Fisco…
Sovranisti immaginari o reali, per tutti contano assai di più le vicende interne dei rispettivi Paesi di quelle del mondo. Colpa di classi dirigenti miopi? Certamente. Miopia tanto più democratica quanto più rispecchia quella dei loro elettori, che hanno lenti più spesse dei loro politici.
Se, per restare in Italia, è realistico ciò che scrive il Rapporto Censis 2024 circa la bassa qualità produttiva e culturale, anzi l’ignoranza, dei cittadini italiani e circa il declino ormai incorporato nell’immaginario collettivo, nessuna meraviglia che il 50% degli elettori stia rintanato nell’astensione, mentre l’altra metà vota dei politici, i cui messaggi e scontri reciproci paiono “un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente”, come si recita nel Macbeth.

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Le quattro sfide dell’Europa
Il guaio è che tutti i palcoscenici nazionali sono divenuti troppo piccoli rispetto al teatro del mondo, quale che sia la qualità della recita. Se torniamo agli Stati-nazione e seppelliamo definitivamente quel poco di “governo multilaterale” che finora ha impedito di precipitare in un conflitto mondiale, allora saranno le dimensioni demografiche, geografiche, geopolitiche e militari a fare la differenza. Gli Stati-nazione europei singoli sono pesi leggerissimi, sempre meno in grado di stare sul ring globale. Sono capaci gli Europei di fare un salto quantico su un’orbita più grande? Non pare, per ora.

La malattia spirituale europea
La classe dirigente europea sta mancando all’appello delle quattro sfide fondamentali: quella dell’Europa come destino spirituale e culturale necessario; quella delle nuove istituzioni politiche sovrannazionali e federali; quella della produzione e della ricerca; quella della demografia.
Nessun fatuo ottimismo può sostituire la costruzione razionale della speranza, fondata sull’intelligenza della realtà e della Storia, perché non è affatto vero che “andrà tutto bene” e che un qualche Dio vorrà “scrivere dritto sulle righe sempre storte degli uomini”. Resta sorprendentemente attuale la pagina della “Storia d’Europa nel secolo XIX”, pubblicata nel 1938Vedi anche
La parabola tragica che si inabissa nella Prima Guerra Mondiale, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, descritta da Benedetto Croce, presenta più di un’analogia con quella che stiamo disegnando, a cavallo tra il XX e il XXI secolo: “La coscienza morale d’Europa era ammalata da quando, caduta prima l’antica fede religiosa, caduta più tardi quella razionalistica e illuministica, non caduta ma combattuta e contrastata l’ultima e più matura religione, quella storica e liberale, il bismarckismo e l’industrialismo e le loro ripercussioni e antinomie interne, incapaci di comporsi in una nuova e rasserenante religione, avevano foggiato un torbido stato d’animo, tra avidità di godimenti, spirito di avventura e conquista, frenetica smania di potenza, irrequietezza e insieme disaffezione e indifferenza, com’è proprio di chi vive fuori centro, fuori di quel centro che è per l’uomo la coscienza etica e religiosa”.
Ed è allarmante quel “qualcosa di mal sicuro e di poco sano” che oggi sta venendo avanti come “taedium” della democrazia.

L’Europa come comunità di destino
Solo l’autocoscienza spirituale dell’Europa come “comunità di destino” può motivare e spingere le generazioni attuali alla costruzione civile, sociale, istituzionale e militare dell’Europa. Nel discorso di accettazione del “Praemium Erasmianum” il 28 aprile 1962, intitolato “Europa. Realtà e Missione”, Romano Guardini, il teologo tedesco originario di Verona, proponeva un’Europa come soggetto di intermediazione pacifica tra le potenze del mondo, come “Katechon”, capace di contenere le pulsioni di onnipotenza militare e tecnologica che insorgono dai continenti, a partire dalla propria eredità cristiana e personalista.
Costruire questa autocoscienza è compito di ciascuno, a partire da chi esercita “il ministero della parola”, forma l’opinione pubblica e educa milioni di ragazzi.
È nostalgia diffusa delle generazioni più anziane quella dei giganti della cultura e della politica del passato, sulle cui spalle noi nani potremmo stare comodi per vedere più lontano, secondo il fortunato aforisma che risale al grammatico Prisciano del VI secolo. Ma poiché i giganti mancano, tocca a noi nani provare a crescere.





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