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In tema di libertà di stampa, l’Italia è oltre il quarantesimo posto. Nel suo ultimo rapporto annuale sullo Stato di diritto, la Commissione europea dedica molto spazio al nostro Paese, scrivendo che c’è un eccessivo ricorso alla querela per diffamazione, che limita l’attività giornalistica e mette a rischio la tutela del segreto professionale e delle fonti. Partiamo da qui per discutere dello stato di salute dell’informazione in Italia con Klaus Davi, massmediologo da oltre trent’anni impegnato nella comunicazione e nel giornalismo.
Secondo i dati del ministero della Giustizia, sono almeno 15 i giornalisti italiani oggi sotto scorta e migliaia i cronisti che subiscono intimidazioni, minacce e ritorsioni, non solo da esponenti della criminalità organizzata, ma anche da pubblici amministratori, esponenti politici e imprenditori. Davi, la libertà di stampa è a rischio in Italia?
Proprio la settimana prossima dovrò presentarmi in tribunale per l’ennesima causa di querela… In realtà, non ritengo che in Italia sia formalmente in pericolo il diritto di critica politica. Grazie alla diffusione capillare del Web, rispetto ai mezzi di informazione tradizionale le informazioni girano molto più efficacemente che un tempo. Ma sul punto nodale ha ragione lei: oggi chiunque può querelare un giornalista che si occupa di politica, di economia, di inchieste sociali, perfino di spettacolo, ed è logico che molti colleghi dell’informazione locale, non tutelati da contratti e da ingaggi dignitosi, preferiscano sottrarsi al pericolo di doversi difendere in tribunale assumendo un avvocato e dovendo poi sopportare alti livelli di stress e tutte le incognite del caso. Quindi, in Italia non c’è la censura, ma l’auto-censura dei professionisti dell’informazione. E la politica non fa niente per risolvere questa impasse. Nessun partito ha mai avanzato proposte di modifica legislativa a tutela dei giornalisti, e nemmeno lo ha fatto l’Ordine dei giornalisti. Il sistema non è mai cambiato e, oggi più che mai, solo chi lavora sotto l’ala protettrice dei più importanti organi di informazione può permettersi di rischiare qualcosa. Quindi, è chiaro che la qualità e l’indipendenza dell’informazione ne risentono.
Le chiedo un’opinione sull’informazione in Rai. A parte il fatto che i palinsesti della tv pubblica sono del tutto simili, nel linguaggio e nei contenuti, a quelli della tv commerciale, telegiornali e programmi di attualità (tranne poche, meritorie eccezioni come ‘Report’ e ‘Presa diretta’) sembrano allineati a un pensiero unico. I principali tg seguono sempre lo stesso schema, che prevede ogni giorno il famoso (e indigesto, non si capisce perché resti in auge) “pastone politico” e non manca mai, in ogni edizione, il servizio sul cantante di turno. È la consacrazione dell’infotainment, sempre in salsa provinciale e nazional-popolare (i servizi sul caldo d’estate, sui regali di natale, sui saldi…), senza coraggio, senza spunti originali, senza visioni alternative…
Lo schema del tg classico prevede una ventina di minuti dedicati all’informazione vera e propria, e altri cinque-sette minuti dedicati alle cosiddette soft news, che spesso sconfinano in un taglio che può apparire promozionale. La cosa non mi scandalizza più di tanto, perché è tutto alla luce del sole e cosi avviene anche nei tg generalisti esteri che guardo regolarmente. Ma per quanto riguarda l’informazione vera e propria, direi che, finché la politica ha il controllo della Rai, anche i direttori hanno le mani legate. Vi sono grandi professionisti fra i corrispondenti dell’azienda, ma hanno più campo libero negli speciali e negli approfondimenti piuttosto che nel telegiornale, dove gli spazi sono contingentati con il misurino degli equilibri politici. Non dimentichiamoci che l’editore del tg è Palazzo Chigi, per effetto della riforma voluta dal Pd di Renzi. Prima la Rai era controllata dal Parlamento, ed era sicuramente più pluralistica, almeno nel rappresentare l’orientamento dei tre maggiori partiti.
Cosa pensa del canone, che è sempre fonte di polemiche e ricatti politici? Secondo lei si potrebbe fare miglior uso delle risorse che ne derivano?
Il servizio pubblico svolge ancora una funzione importante, perché continua comunque a offrire occasioni di confronto, di scambio di opinioni, di intrattenimento. Non dobbiamo dimenticare che nel bouquet Rai ci sono canali come Rai Storia o RaiNews 24, che offrono una grande qualità di prodotto. È vero che la Rai non ha affrontato il processo di mutamento sociale come avrebbe dovuto. Mediaset, La7 e i canali Discovery sono stati più al passo dei tempi, con piattaforme e format simili a quelli dei media nativi digitali. Tuttavia sono assolutamente contrario all’idea di abolire il canone, che è pilastro fondamentale a garanzia della tv pubblica, così come mi sembra politicamente inefficace la proposta di Salvini di abbassarlo di venti euro. La libertà fiscale di un Paese non si misura con provvedimenti legittimi ma discutibili come questo, che fra l’altro verrebbe applicato indistintamente a tutti, dai pensionati ai super-ricchi.
La fruizione audiovisiva negli ultimi anni è profondamente cambiata. Piattaforme e abbonamenti si propongono sempre più come alternativa alle reti tradizionali. Ha ancora senso investire risorse nella televisione generalista?
Chi ha meno di trent’anni non sa nemmeno cosa sia la fruizione televisiva tradizionale. Tranne che per eventi particolari come Sanremo, i mondiali di calcio o le partite di Sinner, che sono situazioni di interesse transgenerazionale, in Italia la televisione generalista è ancora dominante solo sugli over 50. Il fatto è che il nostro è un Paese molto vecchio, e quindi la televisione generalista continua a fare presa su una larga fetta di popolazione, ma naturalmente continua anche a svolgere un’utile funzione sociale. Per questo, penso che non sarà abbandonata tanto facilmente.
L’informazione professionale è ormai soffocata dal torrente di informazioni (vere, false, presunte) generata dai social. Verificare le notizie, selezionare fonti attendibili, fornire elementi di valutazione, utilizzare linguaggio e strumenti corretti (tutti compiti tipici del giornalista) sembrano elementi opzionali rispetto a un’informazione del tutto effimera e nevrotica. È una battaglia persa?
Prima di tutto, direi che forse va ridimensionato l’effetto delle fake news diffuse dai social. Negli Stati Uniti non si può certo dire che Trump abbia sbaragliato Harris per effetto della diffusione di notizie inventate. Lo stesso presunto testa a testa fra i due candidati era una finzione narrativa diffusa ad arte dall’apparato elettorale democratico, quindi in tema di propagazione di fake news c’è stato un certo equilibrio fra i due contendenti, al netto della indubitabile tendenza a truccare le carte di Trump. Detto questo, è certo che il mondo social abbia corroso, nel bene e nel male, il potere delle vecchie élite e delle classi dirigenti tradizionali. Quindi anche i giornalisti mainstream, che di quelle élite hanno sempre fatto parte, hanno perso autorevolezza e incisività. Ma non credo che la professione giornalistica si estinguerà: ci saranno nuovi spazi per recuperare credibilità. La soluzione è semplice: tornare nei territori, parlare con la gente, trasmettere sensazioni e testimonianze raccolte di persona. Magari le si veicolerà online piuttosto che su carta…
La stampa cartacea in Italia, più che nel resto del mondo, si sta avvitando in una crisi senza soluzione. Le vendite sono in calo costante e vengono bilanciate solo in parte dalla maggiore diffusione del digitale. Negli Usa qualche testata, come il New York Times, è riuscita a invertire la tendenza, grazie a una politica editoriale intelligente, con redazioni separate per carta e online, contenuti di alto livello, strategie di incentivazione degli abbonamenti.
Il Nyt ha invertito la rotta perché l’editore valorizza il lavoro giornalistico, lo diversifica e lo retribuisce il giusto. Quindi anche il quotidiano su carta ritrova linfa vitale e diventa spazio per approfondimenti, per commenti autorevoli. In Italia, mentre muoiono le edicole, i millennial si informano soltanto su media post-alfabetici, cioè fondati quasi esclusivamente su immagini (come Instagram o TikTok). I giornalisti che non si adeguano o non tentano nuovi approcci, sono destinati a perdere lettori. È in corso una rivoluzione del linguaggio della comunicazione, e bisogna comprenderlo, capire che senza immagini, senza testimonianze dirette non si incide a livello informativo. D’altro canto, non bisogna dimenticare che il vero giornalista possiede molti strumenti per decodificare le realtà che lo distingueranno sempre dal primo che passa su un social per dare aria alla bocca. Perciò l’informazione fornita professionalmente non sarà mai messa da parte.
Ma perché la carta stampata è così in sofferenza?
Non solo perché i giovani non leggono più i quotidiani. Le edicole chiudono anche perché anziani e famiglie li acquistano sempre meno. La crisi in parte va attribuita anche al fatto che gli investitori pubblicitari credono sempre meno alla carta stampata, forse proprio perché i giornali fanno tanta fatica a rinnovarsi nel linguaggio e nei contenuti. Ma ci sono anche responsabilità precise da parte della federazione degli editori: perché nessuno di loro fa proposte educative precise, affinché la lettura del giornale, con abbonamenti dedicati, sia adottata stabilmente nelle classi? Le statistiche dimostrano che, quando un quotidiano cartaceo è presente in famiglia o a scuola, anche i giovanissimi un’occhiata finiscono per darla, se non altro per un confronto con le loro fonti di informazione. Basterebbe questo per circoscrivere l’attuale crisi della stampa. Se io fossi ministro dell’Istruzione, obbligherei tutte le scuole ad abbonarsi a uno o più quotidiani in funzione educativa e didattica. I giornali non sono un fatto privato, ma fanno parte del sistema sociale e culturale di un Paese.
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