La moda giusta per vestirsi bene

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Che l’industria della moda sia una delle più insostenibili e inquinanti è ormai cosa nota, ma in che modo è possibile attivare una concreta transizione verso una produzione di vestiario più giusta non è così scontato. È ciò su cui cerca di fare luce il rapporto One-Earth Fashion, 33 obiettivi di trasformazione per un’industria della moda giusta entro la soglia dei confini planetari, pubblicato pochi giorni fa dall’organizzazione svizzera indipendente Public Eye, tra le 200 realtà della Clean Clothes Campaign (CCC), attiva da più di 30 anni nel migliorare le filiere globali della moda.

IL RAPPORTO INDIVIDUA 12 AREE CALDE e 12 obiettivi generali da perseguire attraverso 33 tappe fondamentali per realizzare il cambiamento del settore entro il 2030, cercando di inquadrare in modo articolato il problema dai diversi punti di vista che lo compongono. Secondo la rete, infatti, il rischio del comparto è che i tentativi emergenti verso la sostenibilità, quali la riduzione degli imballaggi, l’uso di energia rinnovabile o l’aumento dei salari, vengano annullati da una produzione fuori controllo.

E’ EVIDENTE QUANDO SI OSSERVANO I DATI: le stime indicano emissioni da 1,2 a 4 gigatonnellate di CO2 equivalenti all’anno, ovvero dal 2 all’8% del totale, mentre i volumi di fibre prodotte sono state 113 milioni di tonnellate nel 2021 e si prevede che raggiungeranno 149 milioni di tonnellate entro il 2030. Di queste, la parte più cospicua è rappresentata da fibre provenienti da fonti fossili, con un impatto enorme sia in fase di produzione che in termini di rilascio di microplastica nell’ambiente.

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EPPURE NON È PENSABILE LA SEMPLICE sostituzione di poliestere e altre fibre di plastica con materiali naturali quali cotone, lana o cellulosa, in quanto spesso queste provengono da agricoltura e allevamenti intensivi. Quella che si rende necessaria secondo lo studio è una riduzione sia della portata delle fibre sintetiche (che propone di abbattere del 60% entro il 2030), sia di un 10% di quelle naturali.

PIUTTOSTO CHE IL RICICLAGGIO, i cui processi richiedono molta energia, come succede per esempio per il poliestere ricavato da bottiglie in PET, e l’uso di sostanze chimiche, Public Eye sottolinea l’importanza di incrementare la ricerca affinché si aumenti il riutilizzo da fibra a fibra, oggi sfruttata solo all’1%. Perché il settore faccia il passo sostanziale di ridurre la produzione di capi però elemento fondamentale è creare pressione sul sistema affinché avvenga un’inversione delle strategie di marketing. Come sottolinea il report, «l’attuale sistema della moda globale è quello che è, non perché gli obiettivi per il cambiamento fossero mancanti o sbagliati, ma perché è radicato in paradigmi fuorvianti e quasi egemonici».

SECONDO I DATI DELLA Ellen MacArthur Foundation riportati nello studio, il numero medio globale di volte in cui un capo di abbigliamento viene indossato prima di essere scartato è diminuito del 36% tra il 2000 e il 2015 e l’europeo medio genera circa 11 kg di rifiuti tessili all’anno, di cui solo il 15% viene differenziato.

INVERTIRE LE STRATEGIE DI MARKETING significa quindi incoraggiare l’attenzione alla qualità e longevità del prodotto, e promuoverne la riparazione e la rivendita, piuttosto che incentivare acquisti compulsivi attraverso strategie basate su prezzi troppo bassi. Un’adeguata legislazione si profila come determinante nel dare impulso a questi processi su larga scala, e dovrebbe agire attraverso vari strumenti: la limitazione della pubblicità al fast fashion negli spazi pubblici, il divieto di includere prodotti a base di combustibili fossili negli indumenti e l’obbligo alla raccolta differenziata, come previsto nell’Ue a partire dal 2025.

IN QUESTA VISIONE OLISTICA, anche il benessere lavorativo è parte essenziale del cambiamento, altre che un valore in sé. Lo studio invita a mettere a fuoco come l’equilibrio tra lavoro, cura, vita e riposo, in linea con le Raccomandazioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), sia alla base non solo di un contesto economico e sociale più sicuro (Clean Clothes Campaign ha conteggiato 117 incidenti nei comparti tessili industriali riportati dai media solo tra il 2021 e il 2023, che hanno provocato l’uccisione di 245 lavoratori e il ferimento di oltre 800), ma anche i presupposti per la partecipazione attiva a un cambio di paradigma possibile solo se tutti gli attori agiscono insieme.

«INVECE DI AFFIDARCI esclusivamente allo spirito di resistenza dei consumatori per un sistema della moda migliore, dovremmo cambiare la direzione di questi venti» scrivono gli autori, indicando come ciò possa essere fatto solo agendo su quattro livelli: modificando il quadro normativo, promuovendo un processo decisionale più partecipativo e democratico, riequilibrando le disuguaglianze, e dando potere alle persone. «Lavoratori, cittadini e consumatori possono agire individualmente, ma quando si organizzano in sindacati e altre associazioni, il loro potere trasformativo è amplificato» aggiungono.

«È NOTO CHE L’INDUSTRIA DELLA MODA ha pesanti impatti sul pianeta» ha commentato riguardo allo studio Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti, coalizione italiana della Clean Clothes Campaign: «Sono ormai numerosi i rapporti che snocciolano numeri impressionanti sui danni all’ambiente, al clima, alla biodiversità, oltre che alle lavoratrici e alle comunità, prodotti da un modello di business lineare ed estrattivo, fondato sul mito insostenibile della crescita»

IL NUOVO RAPPORTO «PUBLIC EYE» compie un passo avanti e offre una traiettoria concreta per una trasformazione socio-ecologica e una giusta transizione, «come inizio di una serie di azioni che la CCC intraprenderà per far progredire il dibattito internazionale sul tema e accelerare l’adozione di soluzioni sistemiche che pongano al centro l’agency dei lavoratori».

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