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di Lorenzo Merlo

Circuiti dalla dialettica scientista, pensiamo e giudichiamo come se potessimo arrivare a cavalcare una verità superiore alle altre, senza vedere che in questo maldestro tentativo convive la premessa di conflitti e sopraffazioni.

Non è il fascismo, non è il comunismo, non l’ideologia, né il fanatismo e l’odio che uccidono. Non è l’arroganza e il presunto diritto di sopruso che implicano ad essere al centro della ruota che tutto trascina nel modo turpe al quale stiamo assistendo ora come non mai. È invece la concezione di noi stessi, fondata sulle idee di essere altro dal prossimo e che esista una ragione con più diritto di tutte. Una diade dal Dna razionalista-illuminista-scientista, col potere magico di mostrarsi come assoluta e ineludibile. Ma anche assassina, che ci consegna il diritto di spadroneggiare appena ci si presenta l’opportunità, più o meno cruentemente, più o meno esplicitamente o travestita. Indipendentemente dal censo, dal ceto, dall’erudizione, dall’ente individuale, commerciale, istituzionale.
Quella concezione e i suoi fondamenti, sebbene con indubbie ragioni storiche, è arbitraria, quindi senza diritto assoluto, una concezione che ha quale primo carattere identitario quello di restare occulta alla critica, di eludere la sua messa in discussione.
Essa è origine della realtà e il suo potere su noi è tale che detta realtà diviene solida, evidente, oggettiva. Che basta a se stessa, come un dogma. Come un vento portante per il quale non serve più occuparsi della regolazione del boma e del timone.

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Tuttavia, ciò è simbolicamente un buco nero, un bunker da cui non si vede il cielo, un impedimento alla conoscenza, nonostante al suo interno, si sviluppi una cosmogonia incoccardata di verità, quella positivista e meccanicista, apparentemente a prova di bomba. Ma, nessuno glielo ha mai detto, relativa a un uomo piatto, bidimensionale, limitato e dunque rispettoso, del dio causa-effetto e della triplice unità della logica aristotelica.

In questo tempo individualista, di tradizioni comunitarie frantumate nel mortaio dell’apparenza, del guadagno, di egocentrismo sottopelle e anche preterintenzionale ci si sente in diritto di combattere per stare da soli in punta alla stretta vetta dei propri interessi. Esso combatte armato di dialettica e di morale, con l’dea che noi siamo noi e gli altri sono altro da noi. Una banalità che per quanto forte non è ancora al centro detonante, dove invece troviamo il giudizio, più precisamente l’identificazione di noi stessi con il nostro giudizio. È in questo la scaturigine della separazione tra noi e il mondo, tra noi e la vita, tra noi e la bellezza. È questo l’humus del diritto alla sopraffazione.
Il giudizio reifica il mondo a nostra immagine e somiglianza, ma ciò, ci è nascosto a noi stessi, al punto che ci dà il diritto di suddividerlo nelle categorie che più ci aggradano. Chi è fuori, chi non è d’accordo, fatti suoi. Oppure è un terrorista.

È come vivere all’interno di una scatola dalla coerenza bastante a se stessa per essere inequivocabilmente vera e oggettiva, è come essere Truman Burbank. I pensieri scorrazzano automatici, dettati da un regista che crediamo essere noi, ma non è così. E la cupola dialettica entro cui consumiamo la vita, è talmente fluente e, se necessario, vorticosa, che non ci dà tregua, né morte dove fermarsi a riflettere fino a scoprire il sortilegio logico-scientista-razionale. Così, non ci resta che fluire con essa come zattere instabili al suo inseguimento.

Nella routine della dialettica che concepisce e perpetua un mondo composto di elementi separati dal vuoto e oggettivamente qualificabili e misurabili, il ruolo che riteniamo di rappresentare, anzi, di essere, è determinante. Al pari di quanto facciamo con il giudizio che esprimiamo, l’identificazione con il ruolo che rivestiamo – famigliare, amicale, sociale, istituzionale, professionale, pubblico – ci impone più lei non sa chi sono io in forma varia. Questi, andando dal minimo al massimo e prendendone qui gli estremi, vanno dal sentirsi colpito o offeso, se qualcuno ci appella sbagliando titolo o nome, o in modo per noi inaccettabile, al dover annientare la Russia in nome del destino manifesto e ora, con il sostegno al deliberato massacro etnico, in modo ulteriormente lampante anche ai divanisti ben pensanti – quelli che con il buon senso si risolve tutto – delle lobby delle guerre, di quelle finanziarie, e di quelle della comunicazione, tentacoli della lobby ebraica. Anche non da meno in quanto esponente del popolo eletto.

Nonostante l’autoreferenzialità dei sentimenti, delle emozioni e delle sensazioni, a causa di questi, ci sentiamo autorizzati a descrivere la realtà che catalizzano come autentica e oggettiva, senza forma fino all’istante precedente. Tuttavia, la misconoscenza nei confronti del loro insorgere in noi, cioè dell’occulta esigenza personale dalla quale scaturiscono, ci impedisce di avvederci che la vera natura della realtà non è in essa stessa, ma dipende da una nostra interpretazione, a sua volta imposta dai nostri stessi sentimenti, emozioni e sensazioni, tutti con una pertinenza culturale della geografia di nascita e vita. 

Il movente, la regia del nostro fare, è un segugio che insegue solo ciò in cui avvertiamo il senso delle cose, in quanto in esso e solo in esso ci sentiamo primattori della vita. Senza quel senso la luce si affievolisce, fino a spegnersi: disorientamento, confusione, inconclusività, alienazione, disperazione, pena, morte.
Esistere e voler esistere è dunque trovare il proprio ruolo, che vuol dire chiave per interpretare il mondo e trovarlo sempre pronto e aperto a noi. Ma ciò permette, a volte, di trovare anche la propria piena ignoranza. Questa, che sta nell’inconsapevolezza che il senso entro cui, e seguendo il quale, ci sentiamo vivere, e ci crediamo qualsivoglia chissà chi, non è altro che uno dei mille autoreferenziali mondi edificati dal nostro alfabeto o da quello della cultura in cui siamo spuntati, proprio come Seahaven, la cittadina di Truman, con il quale narriamo le nostre verità.

La questione è seria in quanto, alla faccia delle belle parole moralistiche dei diritti vari, sventolati dalla democrazia delle nostre presunte civiltà avanzate, concependo quell’alfabeto come il solo esistente, di fatto, gli argini etici che a parole ci poniamo, – e con lo stesso abbecedario escogitiamo – circostanze permettendo, non reggeranno alla più lieve spinta imposta da un filo rosso di differente senso delle cose. Ed è allora che la sopraffazione dell’altro, sia questo persona o popolo, classe sociale, concorrente commerciale o egemonico, emerge dal profondo e salta fuori per sparare a tutti, anche ai compagni di scuola.

Lorenzo Merlo

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