La frammentazione nella gestione dei depuratori, unita a costi elevati di trattamento, rischia di ricadere sugli agricoltori, aumentando i prezzi dei prodotti sul mercato e riducendo la competitività del settore
Con i cambiamenti climatici e le crisi idriche sempre più frequenti, le acque reflue sono una potenziale risorsa per l’agricoltura in Italia. Attualmente, il Paese ha a disposizione un “mare” di ben 4 miliardi di metri cubi di acque reflue, ma ne sfrutta solo una piccola porzione. Il tema è oggetto di attenzione da parte dei Consorzi di bonifica e dell’Unione Europea, che ha più volte esortato ad un uso più esteso e consapevole di questa risorsa.
Il piano
Un progetto che potrebbe essere preso come esempio e fare da capofila in tutta Italia è in atto tra Acea e il Consorzio di Bonifica Litorale Nord di Roma, sotto l’egida dell’Anbi (l’Associazione Nazionale dei Consorzi di Gestione e Tutela del Territorio e della Acque Irrigue) con il supporto scientifico dell’Università di Bologna e della Politecnica delle Marche. «L’obiettivo è quello di dimostrare che è possibile integrare in modo proficuo e sicuro le acque reflue nel ciclo agricolo, garantendo al contempo la salute pubblica e la qualità del prodotto» ha affermato Attilio Toscano professore dell’Università di Bologna che con il suo team ha appena redatto il Piano di Gestione del Rischio delle acque in uscita dal depuratore di Fregene, alle porte di Roma e gestito da Acea. Un progetto reso possibile grazie a un finanziamento Pnrr di circa 6 milioni di euro. Lo studio è il primo redatto in Italia mentre una seconda esperienza sta procedendo in Emilia-Romagna con Hera. «Il regolamento europeo sull’utilizzo delle acque reflue, recentemente implementato, richiede che ogni depuratore abbia un piano di gestione del rischio, con l’obiettivo di minimizzare i potenziali rischi connessi al riutilizzo – ha spiegato Toscano -. Questo segna un importante passo avanti verso una gestione più sostenibile delle risorse idriche e una riduzione degli sprechi».
L’appello al ministro
«L’adozione di regole chiare e condivise è fondamentale per garantire un utilizzo sicuro delle acque reflue, minimizzando i rischi legati alla salute alimentare e all’immagine del ‘made in Italy’ agroalimentare» ha sottolineato Massimo Gargano, direttore generale dell’Anbi, che ha chiesto al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto, la riapertura della concertazione sull’uso delle acque reflue. Infatti, la qualità delle acque prodotte dai depuratori è critica, con molti impianti inadeguati e con la necessità di ridurre la presenza di nuovi inquinanti, come microplastiche e Pfas. Gli impianti di depurazione non modernizzati continuano a produrre acque ritenute insufficienti per l’utilizzo in agricoltura. «La certificazione delle acque da parte di un ente terzo è imprescindibile» ha affermato Gargano. Infatti, la gestione e l’adeguamento dei sistemi di depurazione si presentano come una sfida particolarmente complessa, soprattutto nel Mezzogiorno.
La frammentazione
La frammentazione nella gestione dei depuratori, unita a costi elevati di trattamento, rischia di ricadere sugli agricoltori, aumentando i prezzi dei prodotti sul mercato e riducendo la competitività internazionale del settore.
«Il riuso a scopo irriguo delle acque prodotte dalle città che altrimenti finirebbero nei mari e nei fiumi è una pratica promossa dall’Unione europea che tre anni fa ha emanato un regolamento valido per tutti i Paesi» ha spiegato il professor Toscano mentre il direttore generale Anbi ha messo in guardia sul rischio per l’Italia di una procedura di infrazione a causa del mancato rispetto delle regole europee sui reflui. «Non siamo ancora in procedura di infrazione, ma ci andremo certamente se non si attua una concertazione adeguata tra ministero dell’Ambiente e gli utenti».
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