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Dopo aver visto il video del calendario 2025 della Polizia Penitenziaria, e queste immagini dove il carcere non appare mai, ma appaiono invece esibizioni di forza da parte di “pubblici ufficiali” compiaciuti di dare di sé un’idea tutta muscolare, sono andata a cercare le parole importanti pronunciate nella Casa di reclusione di Padova, nel 2016, da Francesco Cascini, magistrato, allora Capo del Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità.
Poliziotti si sentono parti di un conflitto
“La cultura dell’esecuzione penale passa anche per un’attenta lettura di quello che accade negli istituti penitenziari. Io spesso incontro la polizia penitenziaria, facciamo continuamente corsi di formazione. La sensazione, parlando con loro, è che si sentano ancora in larga misura parti di un conflitto. Per moltissimi anni, prima con il regolamento Rocco che era del 1930 ed è stato in vigore fino al 1975, il carcere era segregazione, quindi era gestione e prosecuzione di un conflitto. Dopo quegli anni, gli anni del terrorismo e della criminalità organizzata hanno spinto il carcere a proseguire nel conflitto. I poliziotti penitenziari erano uguali agli altri poliziotti: erano quelli che dovevano continuare a contenere quel pericoloso conflitto, impedire le rivolte, i sequestri, le uccisioni. E questa cosa qui ce la siamo portata dietro fino a qualche anno fa e forse è ancora latente, l’idea che è necessaria una polizia nel carcere sottintende l’idea che con l’esecuzione della condanna non inizia il periodo di risoluzione del conflitto ma è la prosecuzione di quel conflitto, ed è qui che nasce una contrapposizione insanabile tra quella che viene definita sicurezza negli ambienti penitenziari e il trattamento, se non si va oltre, se non si accetta l’idea che il momento dell’esecuzione penale, che sia in carcere o nel territorio, è il momento in cui i conflitti si risolvono”.
Solo repressione
L’analisi di Francesco Cascini a distanza di anni è di stringente attualità, anzi si può dire che oggi ci sia un’accelerazione verso un ruolo della polizia penitenziaria sempre meno teso a contribuire alla funzione rieducativa della pena e disegnato, invece, in una concezione del carcere come luogo di scontro e di repressione. Questo dicono anche alcune misure contenute nel Decreto sicurezza, come l’uso della bodycam per le forze di polizia impegnate nelle azioni di mantenimento dell’ordine pubblico, carcere per chi blocca una strada, aggravanti per i reati compiuti nelle stazioni e per le minacce e violenze commesse nei confronti di un pubblico ufficiale, in occasione della costruzione di una infrastruttura strategica, introduzione nel Codice penale del reato di “resistenza passiva” da applicarsi alle persone detenute. Dunque, la finalità costituzionale della pena è soffocata dall’accentuazione degli aspetti conflittuali del rapporto detenuti-agenti.
La pena rabbiosa dei ‘fascicoli viventi’
E la pena torna a essere prevalentemente una pena rabbiosa, dove le persone detenute diventano “fascicoli viventi” e, nel rapporto con chi esercita il potere, nei consigli di disciplina, non riescono mai a portare le loro ragioni, e tanto meno ci riusciranno con lo spettro della denuncia per “resistenza passiva”. Scrive Roberto Cornelli, professore ordinario di Criminologia all’Università statale di Milano, a proposito delle Polizia penitenziaria, di cui è un attento studioso: “Questo sentimento di isolamento e di delegittimazione istituzionale è quello che stiamo studiando in funzione di un tema di grande attualità, che è la propensione all’uso della forza. Perché dobbiamo anche in questo caso uscire da un modo ricorrente di guardare alla violenza di polizia come il prodotto di mele marce e iniziare a chiederci – posto che da un punto di vista giudiziario la responsabilità penale è personale ovviamente – cosa poter fare sul piano istituzionale in termini preventivi. Quali sono, in altre parole, gli elementi che fanno sì che ci sia una propensione all’uso della forza, vale a dire che si ritenga giusto e possibile usare la forza in certe situazioni?”.
Se il Decreto sicurezza sta disegnando un’idea di società e di carceri, dove i conflitti sociali si risolvono con la forza, senza spazi di mediazione, l’Ordinamento penitenziario dice però che sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari “tutti coloro che, avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti, dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”. Oggi più che mai allora è importante il ruolo della società civile nel rendere le carceri più trasparenti possibile e nel lavorare perché non si affermi l’idea di una Polizia penitenziaria chiamata solo a risolvere con la forza tensioni, proteste, momenti di resistenza passiva. Una società civile che sappia attrezzarsi per disinnescare i conflitti.
Ornella Favero – Coordinatrice Ristretti Orizzonti
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