Entro il 2027, il mercato del fast fashion varrà, nel mondo, circa centottantacinque miliardi di dollari. A condividere la notizia è Statista, portale che si occupa di analisi dati e ricerche di mercato. Un dato che è ancora più stupefacente se si pensa che questo stesso mercato, appena due anni fa, valeva solo negli Stati Uniti centosei miliardi. Secondo lo studio i brand che capeggiano questa rivoluzione sono ovviamente H&M e Zara, che in questi anni si sono scambiati più volte il titolo di brand di fast fashion con il più alto valore di mercato, anche se a crescere, in proporzione, più di tutti, è stato l’ultra fast fashion di Shein che in soli due anni, tra il 2020 e il 2022, ha più che raddoppiato il suo giro d’affari negli Stati Uniti.
Se abbiamo già parlato un paio di puntate fa di come i brand di fast fashion stiano cambiando la propria immagine per nobilitarsi agli occhi del grande pubblico – con campagne firmate dai grandi nomi della moda, dietro e davanti l’obiettivo – un tassello aggiuntivo di questo processo si sta svelando nell’ultimo anno, con l’assunzione di direttori creativi che vengono dalle passerelle di Milano o Parigi.
Se l’ultima notizia in ordine di tempo è quella che riguarda la collezione speciale realizzata per Zara da Stefano Pilati, assoluto arbiter elegantiarum della moda dei primi Duemila oggi considerato un vate dello stile, a settembre dell’anno scorso H&M aveva annunciato che avrebbe assoldato Heron Preston come consulente per le linee di abbigliamento maschile, oltre a realizzare collezioni stagionali a suo nome, sempre per il gigante con sede a Stoccolma. Il designer newyorchese è uno dei tanti figli stilistici di Virgil Abloh, e ha lanciato infatti a marzo la sua prima fatica “powered by H&M” dal nome H2, che GQ Usa ha definito con grande entusiasmo come «la guida più completa di sempre allo streetwear moderno». Di questo settembre è invece l’annuncio che il nuovo direttore creativo di Uniqlo è Clare Waight Keller, il cui incarico precedente era lo stesso, ma da Givenchy dove è stata dal 2017 al 2020.
A ottobre invece Zara ha annunciato l’inizio di una partnership pluriennale con Samuel Ross, altro accolito di Virgil Abloh e collaboratore di Kanye West, ma, in maniera più rilevante, fondatore del brand A cold wall, venduto proprio quest’anno a Tomorrow Ltd. Nella cornice di questo accordo Samuel Ross realizzerà collezioni sotto il nome SR_A Engineered by Zara, il cui primo risultato lo vedremo a marzo del prossimo anno.
Esperimenti che, dai primi dati parziali ai quali si può accedere, appaiono riusciti: nel caso della collezione di Stefano Pilati x Zara, che abbiamo raggiunto via mail, pur non potendo per policy condividere dati relativi alle singole collezioni, ammette di aver avuto una risposta di pubblico positiva. Presentata con un servizio fotografico scattato da Steven Meisel che ritrae il creativo italiano insieme ad una Gisele Bundchen assai simile nel vaporoso caschetto biondo alla raffinata Monica Vitti de L’Avventura, il brand sostiene che in Italia diversi articoli sono andati sold out, sia negli store fisici che nello shop online. A livello generale, i risultati dei primi sei mesi del 2024 dell’intero gruppo a cui Zara appartiene, Inditex, che non prendono in considerazione le collezioni speciali come questa, parlano di crescita. Le vendite sono salite del 7,2 per cento generando entrate per 18,1 miliardi (a questo totale, Zara da sola ha contribuito con tredici miliardi).
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Assoldare dei direttori creativi noti nel mondo del lusso, per il fast fashion non è certo una novità, ma una pratica consolidata ormai da un ventennio circa: infatti H&M ha da poco lanciato una speciale linea celebrativa, che festeggia due decadi di collezioni realizzate con dei designer guest, selezionando dei pezzi second hand proprio relative a quelle collezioni. La novità però è assoldarli in forma stabile, strutturandosi in una maniera simile alle maison, mostrando di avere una dimensione estetica precisa, e desiderabile, oltre che dei prezzi (ancora) accessibili.
Storicamente, non è però sempre andata così. A voler andare indietro nel tempo, il primo designer che prestò il suo nome per la realizzazione di una collezione a prezzi accessibili al grande pubblico fu Halston, che nel 1983 firmò un contratto con la catena di JCPenney, chiamando il brand dedicato Halston III, con prezzi che andavano dai dieci ai duecentotrenta dollari. Il nome si riferiva a quella che secondo lui era la terza fase della sua vita, dove la prima era stata quella nella quale si era dedicato alla creazione di cappelli, e la seconda quella di designer per l’alta moda.
La notizia fu lanciata con tutta la fanfara necessaria, tramite un evento al Museum of National History di New York. Il documentario Ultrasuede: in search of Halston, del 2011, ricorda come il designer annunciò in televisione di aver guadagnato un miliardo di dollari di allora da questa impresa. Un guadagno economico immediato che nel lungo termine servì a poco, perché nonostante l’impresa pionieristica di Halston, i tempi erano ancora prematuri per questo tipo di approccio.
Ben lontani dal desiderio di risultare appetibili a tutti, anche solo per associazione, i grandi magazzini del lusso Bergdorf Goodman, tra i principali distributori della prima linea di Halston, Halston Limited, smisero di acquistarla appena vennero annunciati i piani dello sviluppo di Halston III. Così, il designer americano dovette vendere il suo brand a Norton Simon, lo stesso che possedeva il marchio di intimo Playtex. Il conglomerato fu acquisito a sua volta da Beatrix Foods, conosciuto per la sua maionese.
Nello svilupparsi di questi eventi, aumentarono a dismisura le licenze e la produzione di linee, e sempre minore era il potere decisionale e l’apporto creativo del suo fondatore che tentò più volte di rinegoziare gli accordi. Un processo imbarazzante per il designer incensato dalla stampa americano come il rappresentante stesso del concetto di eleganza e che finì appaiato a prodotti alimentari, portando il nome di Halston a divenire soggetto di sketch ironici al Saturday Night Live.
Con la tempistica andò meglio a Karl Lagerfeld: nonostante il pregresso infausto di Halston, il designer tedesco nel 2004 pensò che i tempi fossero maturi per ritentare. Nasce così la prima collaborazione di H&M con un designer del lusso. E nonostante i dubbi, come sempre Lagerfeld provò di aver avuto ragione. La campagna pubblicitaria all’epoca realizzata veicolava proprio quella sensazione che serpeggiava negli ambienti della moda, tra i designer e le clienti storiche: cioè che quella mossa potesse rivelarsi troppo azzardata.
All’interno della réclame in bianco e nero che si ritrova su YouTube, dei colleghi stilisti sussurrano preoccupati mentre mangiano aragoste e bevono champagne in un raffinato ristorante, riflettendo sulla notizia che passa di bocca in bocca, quella di una collaborazione tra Lagerfeld e il colosso svedese del fast fashion. Mentre la musica classica si evolve in un crescendo drammatico, alcune clienti del lusso si palesano con grande preoccupazione al Ritz-Cartlon, altre in segno di protesta, lanciano degli abiti nella Senna, mentre altre ancora, più giovani, sembrano eccitate dall’idea, forse per la sua stessa oscenità: quella di appaiare il lusso al fast fashion. La scena torna al tavolo del ristorante dove uno dei due designer, non avendo il coraggio di pronunciare la storia per intero, scrive al suo collega un bigliettino dove si annuncia, addirittura, che verrà realizzata una linea maschile.
L’altro ha un mancamento, e urla, all’indirizzo di Lagerfeld, che si scopre essere nello stesso ristorante, qualche tavolo più in là, chiedendogli se questa notizia sia da considerarsi vera. Circondato da donne giovanissime, una nuova generazione vestita con dei top ricamati a 29,99 dollari, come suggerisce la stessa pubblicità, il designer non si prende neanche il disturbo di girarsi, ma continuando a dare le spalle al suo interlocutore, dice «certo che è vero». «Ma è cheap», lo accusa l’altro. «Cheap, che parola deprimente»,conclude Lagerfeld. «Basta avere gusto. Se sei cheap, nulla può aiutarti».
L’approccio pionieristico di Lagerfeld e i tempi che erano finalmente maturi hanno portato anche molti colleghi del designer tedesco a gettarsi nell’agone delle collaborazioni con i brand di fast fashion, fino ad arrivare a Mugler. Il designer Casey Cadwallader, oggi direttore creativo del brand, ha presentato a maggio del 2023 la sua co-lab, dove ha ripreso pedissequamente alcuni pezzi della sua ultima sfilata, traducendola semplicemente su tessuti più economici. D’altronde, come già sosteneva lo stilista Oleg Cassini quasi cinquant’anni fa «se i tuoi clienti arrivano da te in limousine, tu andrai via in autobus: se i tuoi clienti arrivano da te in autobus, andrai via in limousine». I profitti e gli assegni staccati dai giganteschi brand del fast fashion sono ad oggi troppo ghiotti perché qualunque designer possa rifiutarli: tolto l’intralcio del problema reputazionale, che oggi non è più la lettera scarlatta che toccò ad Halston, non ci sono buoni motivi per non farlo.
Prendendo dei direttori creativi in pianta stabile, invece, il fast fashion riesce a posizionarsi anche se solo a livello semantico e non certo qualitativo, nel settore premium. I prezzi si alzano sensibilmente, ma non sono ancora così alti da divenire inaccessibili, soprattutto considerato che le maison invece hanno adottato negli anni una politica di prezzi inarrivabili per la gente comune, e che i brand precedentemente esistenti nel settore premium sono stati falcidiati, nel corso di vent’anni, dai prezzi troppo più ghiotti del fast fashion. E mentre le grandi maison e i conglomerati che le possiedono pagano il dazio di un mercato stagnante e della solitudine nella quale hanno lasciato il cliente aspirazionale – che nel linguaggio tecnico è quello che risparmia tutto l’anno per poi concedersi, magari, l’acquisto di una sola borsa – il fast fashion cambia forma.
Nel terzo trimestre del 2024 Kering ha registrato un calo del quindici per cento nei ricavi, LVMH di un più contenuto tre per cento: nessuno di loro ha ancora la sincerità di ammettere che parte della colpa risiede nell’innalzamento drammatico dei prezzi che ha tagliato fuori un’intera fascia di consumatori. Lo studio di Boston Consulting Group, “Europeans consumers are optimistic but still not spending”, appena pubblicato, evidenzia come di fronte all’aumento generalizzato dei prezzi, il trentanove per cento dei consumatori del Vecchio Continente – il campione preso in esame è di settemila persone che risiedono in diversi paesi europei – sceglie di spendere più per i beni essenziali, rinunciando alle spese discrezionali. Senza molte sorprese, il settore che ha subito il maggiore calo è stato l’abbigliamento che registra un meno venti per cento.
D’altronde ad oggi, acquistare prodotti dei grandi brand non è sempre garanzia di qualità: un pezzo dello scorso anno del The Atlantic firmato da Amanda Mull, “Your sweaters are garbage” sostiene che dal 2005 in poi, persino le grandi maison hanno iniziato in maniera massiva a inserire percentuali sempre più consistenti di fibre sintetiche nei maglioni in lana, pur mantenendo intatto il prezzo ( sempre più alto). Questo perché nel 2005 è scaduto il termine trentennale del Multifiber Agreement, accordo che aveva messo un limite massimo ai prodotti provenienti da paesi in via di sviluppo che potevano essere commercializzati in Europa, negli Stati Uniti o in Canada. Venute meno quelle regole stringenti è stato possibile esternalizzare gran parte della produzione in Asia o in America Latina dove le paghe per gli operai sono minori e si è molto permissivi sull’utilizzo di fibre sintetiche. Di conseguenza, anche un maglione che in boutique ha dei costi onerosi, non è necessariamente un pezzo realizzato con il cento per cento di fibre naturali, più costose ma anche più capaci di mantenere la temperatura del corpo costante senza creare fastidiosi pruriti o impregnarsi di sudore.
Nel frattempo, chi è attento alle proprie tasche ma anche all’ambiente, investe in abbigliamento vintage o di seconda mano. Una fetta di mercato, quella del vintage, che, secondo lo studio di Global Data, realizzato lo scorso anno per Thred Up, varrà nel 2028 trecentocinquanta miliardi di dollari, con una crescita tre volte più veloce rispetto al mercato dell’abbigliamento. Di conseguenza le principali piattaforme di rivendita si attrezzano per mettere in atto procedure di certificazione dei pezzi logati. Björn Holzhauer, Senior Brand Expert di Vinted, afferma che, per riconoscere un capo falso, dupe, fake che dir si voglia, è importante seguire alcune regole.
Bisogna diffidare degli accessori come bag protettive, confezioni o ricevute, perché anche queste possono essere contraffatte in modo molto professionale; fare ricerche sullo specifico brand perché in alcuni casi i contraffattori aggiungono elementi extra per far percepire i falsi come autentici. Ad esempio, marchi come Louis Vuitton, Fendi o Gucci non rilasciano carte di autenticità. Pertanto, un documento di questo tipo trovato in questi articoli è un forte indicatore di contraffazione. Infine, si presta attenzione all’odore perché se sneaker e borse hanno un forte odore chimico è un chiaro segno di contraffazione.
Il panorama, insomma, sta cambiando in maniera definitiva: intere fasce di mercato i cui attori principali sono stati sostituiti da chi ha cambiato faccia ma non sostanza (il fast fashion); un lusso in crisi incapace di riconoscere i suoi limiti e la sua ingordigia; una situazione storica particolarmente drammatica. Al domani resterà da sbrogliare parecchi interrogativi e incertezze; ai consumatori toccherà divenire più attenti che in passato. Il rischio è più alto per le maison, che, prese a inseguire dividendi e fatturati, perdono anima e autorevolezza. E che la moda vada fuori moda, non se lo augura proprio nessuno.
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