Jihadismo in Africa, come sta cambiando

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La maggior parte dei gruppi jihadisti – non solo quelli attivi in Africa – ha abbandonato gli obiettivi internazionali, diventando sempre più coinvolti in conflitti nazionali e sfruttano le tensioni locali. L’analisi di Francesco D’Arrigo, direttore dell’Istituto Italiano di Studi Strategici “Niccolò Machiavelli”.

Nell’ultimo decennio la violenza islamista africana ha ferocemente colpito in tutta l’Africa.

Mentre i militanti islamici sono presenti nelle aree con popolazioni musulmane di tutto il continente, i gruppi violenti organizzati si concentrano in aree specifiche del Sahel, del bacino del Lago Ciad, della Somalia, del Mozambico settentrionale e della provincia del Nord Kivu nella Repubblica Democratica del Congo (RDC). Anche i Paesi confinanti con queste aree sono colpiti da attività militanti transfrontaliere, tra cui l’uso dei loro territori per il reclutamento e il contrabbando di armi e altri beni illeciti per generare entrate. In particolare di Kenya, Tanzania e Uganda in Africa orientale e di Benin, Costa d’Avorio, Ghana e Togo in Africa occidentale.

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La maggior parte dei gruppi jihadisti ha abbandonato gli obiettivi internazionali. Essi sono diventati sempre più coinvolti in conflitti nazionali e sfruttano le tensioni locali. La maggior parte dei conflitti nelle regioni in cui operano è incentrata sull’accesso e sulla gestione delle risorse naturali, soprattutto di quelle idriche, in assenza di risposte di governance efficaci da parte degli Stati. Conflitti che, come abbiamo visto, sono stati esacerbati in modo significativo dall’accelerazione dei cambiamenti climatici. I jihadisti sono coinvolti anche in conflitti intercomunitari di minore entità dalle tensioni di lunga data tra diversi gruppi etnici, tra le élite urbane e politiche dominanti, che hanno interessi di potere nell’alimentare queste tensioni.

Le esperienze dei Paesi che hanno avuto successo nel combattere le insurrezioni jihadiste dimostrano che è essenziale trovare un equilibrio efficace tra fornire sicurezza, sostenere lo sviluppo locale e negoziare con le comunità e alcuni gruppi armati. Tuttavia, questo obiettivo è molto difficile da raggiungere, perché richiede istituzioni e leadership politica efficaci che devono essere implementate dai Paesi stessi. Per le organizzazioni internazionali è molto difficile influenzare questi processi.

IMPORTANZA STRATEGICA DEL CORNO D’AFRICA

I repentini stravolgimenti geopolitici che stanno provocando crisi in diverse regioni del mondo, sono solo apparentemente distanti tra loro. E invece sono tutti interconnessi da varie combinazioni di perturbazioni commerciali, impatti del cambiamento climatico, carenza di risorse idriche e alimentari, instabilità politica e conflitti. Questi fattori influenzano i mercati dei prodotti di base e la sicurezza alimentare e nutrizionale, con gravi vulnerabilità in molti Paesi dell’Africa e del Medio Oriente, con le ripercussioni umanitarie sulla sicurezza internazionale che stiamo già constatando.

In tale contesto, il Corno d’Africa riveste una notevole importanza geostrategica per la sua posizione in prossimità di rotte marittime vitali, come lo stretto di Bab El-Mandeb, fondamentale per il commercio globale. Per gli interessi europei il Corno d’Africa rappresenta un perimetro strategico cruciale, minacciato dalla sempre maggiore influenza di Cina e Russia e dai movimenti islamisti, che con i loro collegamenti con l’Iran hanno come obiettivo la soppressione di ogni aspirazione democratica dei Paesi di quella regione.

L’UNIONE EUROPEA BATTE UN COLPO

Come abbiamo visto, le crisi dei Paesi africani non influiscono soltanto a livello regionale, ma si intrecciano con dinamiche geostrategiche globali. Per gli Stati Uniti e l’UE, i problemi africani sono secondari rispetto alle guerre in Ucraina ed in Medio Oriente. Tuttavia, il Mar Rosso, corridoio vitale per il commercio mondiale, è un punto focale dell’attenzione internazionale, come dimostra la EU NAVFOR Somalia-operazione Atalanta, una missione diplomatico-militare di sicurezza marittima dell’Unione europea, per prevenire e reprimere gli atti di pirateria marittima lungo le coste degli Stati del Corno d’Africa a sostegno delle risoluzioni Omu, adottate nel 2008 dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L’operazione Atalanta che combatte la pirateria e promuove la sicurezza marittima in una zona che comprende il Golfo di Aden, il Corno d’Africa e l’Oceano Indiano fino alle Isole Seychelles, è fondamentale per ridurre le crescenti minacce al commercio globale.

L’interesse strategico di questa regione, dovrebbe far compiere all’UE ogni possibile sforzo affinché gli Stati africani allineino le rispettive agende geopolitiche a quelle dei valori democratici occidentali.

IL RITIRO DEGLI STATI UNITI

Il ruolo degli Stati Uniti in Africa si è progressivamente ridotto negli ultimi anni, permettendo ad altre potenze di affermare la propria influenza in modo più aggressivo, incidendo sulle dinamiche di pace e sicurezza, sia a livello regionale che globale.

Questa politica si riflette in vari aspetti e comporta diverse implicazioni, con un vuoto di potere che è stato riempito dalle potenze regionali e mondiali, in particolare quelle del Medio Oriente. Paesi come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e la Turchia hanno aumentato la loro influenza in Africa, spesso perseguendo i loro interessi geopolitici ed economici. Un coinvolgimento che si è manifestato in varie forme, tra cui basi militari, investimenti economici e iniziative diplomatiche che hanno contribuito a prolungare conflitti, instabilità politica e crisi umanitarie.

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Storicamente, il coinvolgimento degli Stati Uniti, percepito positivamente o negativamente, è stato un fattore chiave negli sforzi diplomatici e nei processi di risoluzione dei conflitti. L’attuale postura degli Stati Uniti ha provocato una mancanza di mediazione efficace nei conflitti regionali, una prolungata instabilità ed un’escalation delle tensioni esistenti.



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