«Rischiamo la normalizzazione del pensiero mafioso»

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La pubblicistica sulle mafie è oggi sterminata: cronache, servizi, romanzi, saggi, tesi di laurea, film, spettacoli teatrali, canzoni, interviste, post eccetera. Dobbiamo però chiederci se, e quanto, tutto questo materiale scuota le coscienze nei territori e nei palazzi del potere. Il racconto della pervasività delle organizzazioni criminali è di per sé sufficiente a determinare una reazione collettiva e istituzionale in grado di orientare i comportamenti individuali verso un’antimafia quotidiana che sia rispetto delle regole, ripudio di illeciti, favoritismi e atti di familismo, che si sostanzi nel riconoscimento dei meriti professionali, nella condanna di apparati e codici mafiosi come di ogni forma di prevaricazione? E ancora: nel mare magnum dell’informazione e della comunicazione, sono poste sullo stesso piano la repressione dello Stato e l’esaltazione dell’antistato, come se fossero merci a buon mercato in un’unica, grande vetrina a portata di clic? Ci siamo accorti, nella fretta disperata del contemporaneo, che vi è una diffusa mancanza di giudizio etico e critico sulla narrazione della potenza criminale, al punto da non distinguere i contenuti della cultura antimafiosa da quelli che alimentano i miti e l’apologia del crimine organizzato? Davanti a questi problemi, la politica è presente oppure latitante? Essa si preserva dalle infiltrazioni mafiose o nel merito ripara in un silenzio di comodo, in un’indifferenza strumentale a mantenere postazioni e spazi di potere pubblico?
Proprio per rompere il ghiaccio e smuovere le acque sulle questioni appena esposte, come Corriere della Calabria abbiamo lanciato un’iniziativa, inattuale e per niente commerciale, di approfondimento specifico (qui il link), sul presupposto che i partiti sono, ricordando la lettera della Costituzione, lo strumento dei cittadini «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Davanti al crescente astensionismo elettorale, bisognerebbe anche chiedersi perché i partiti, in generale, non prendono sul serio la necessità di allontanare o di espellere affiliati alle cosche oppure persone in odore di mafia, che poi potrebbero condizionare le amministrazioni pubbliche, le attività degli uffici, l’assegnazione di appalti, di incarichi, di ruoli decisionali.
Che cosa è la mafia, la ’ndrangheta o la camorra? È sufficiente la definizione generale contenuta nell’articolo 416-bis del Codice penale, che presuppone l’esistenza di un’associazione di tre o più persone e l’esercizio della forza intimidatrice del vincolo associativo, in una condizione di assoggettamento e omertà, allo scopo di commettere delitti, di controllare attività economiche, di condizionare il sistema pubblico per realizzare profitti o vantaggi ingiusti, oppure «al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali»? Esistono forme di criminalità organizzata che, pur non rientranti nelle suddette disposizioni, derivano da una mentalità, da una cultura di tipo mafioso? Lo scrittore Leonardo Sciascia debordava quando sosteneva che «ci sono in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo», quando aggiungeva che «una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo, ora di proteggerlo, ora d’incolpare un innocente»? Ed è attuale il riferito monito di Sciascia? Inoltre, quanto la scuola e l’università possono formare coscienze antimafiose, in un sistema che tende a produrre adesioni ai due comandamenti del capitalismo contemporaneo, cioè vendere e lucrare a ogni costo? Proveremo a dare una risposta a queste domande, attraverso la voce di esponenti politici e persone impegnate nell’antimafia civile. Oggi sentiamo Sonia Alfano, figlia del giornalista Beppe Alfano – ucciso da Cosa nostra l’8 gennaio 1993 –, già presidente della Commissione Crim del Parlamento europeo e oggi responsabile nazionale del dipartimento “Legalità” di Azione, il partito guidato da Carlo Calenda. All’intervistata diamo del Tu, perché la conosciamo da tempo e dunque per chiarezza verso i nostri lettori.

Il tema della legalità e della bonifica dei territori dalle mafie è scomparso dal dibattito pubblico. Perché? 

«Quando dalle istituzioni sono usciti politici che hanno fatto della propria vita una battaglia costante, dalla lotta all’illegalità a quella alle mafie e alle ingiustizie, c’è stato campo libero per la controparte. L’obiettivo del nostro nemico era la normalizzazione del pensiero mafioso. Se i nostri avversari avessero continuato a contrastarci, l’opinione pubblica civile avrebbe assunto una posizione a favore della legalità e dell’antimafia. Invece, con la normalizzazione di determinate situazioni, vedi le luci dei media su Riina junior, si è giunti a legittimare che il figlio di un mafioso possa raccontare serenamente la vita e le gesta del padre attraverso un libro, un’intervista, una rappresentazione teatrale. Allora c’è stata una compromissione del tessuto sociale, anzitutto sul piano intellettuale». 

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È in atto un processo di naturalizzazione?

«Certo. Perché la normalizzazione che ne sta alla base passa da tutta una serie di meccanismi che possono apparire assolutamente normali, pur non essendolo. Sono andate progressivamente a cessare le iniziative di sensibilizzazione antimafia nelle scuole. Dunque, è scomparsa dallo sguardo pubblico quella pedagogia di emancipazione collettiva dalla criminalità organizzata. Oggi si parla di legalità e giustizia solo in occasione delle grandi stragi». 

C’è una responsabilità del sistema informativo e culturale in questa normalizzazione del pensiero mafioso? 

«Assolutamente sì, perché l’istruzione è schiacciata, non ha più il suo ruolo. La scuola è diventata un posto che va a riempire quelle cinque o sei ore per chi non vuole avere problemi, per chi vuole evitare denunce, quando arrivano, per dispersione scolastica. Però al Sud sappiamo che funziona in maniera diversa: la dispersione scolastica è altissima. In particolare, in Calabria come in Campania e da me in Sicilia, già a nove o dieci anni i minori non vanno più a scuola. Questo non può che alimentare determinate file, cioè quelle della criminalità organizzata, delle baby gang eccetera. La famiglia, altro contenitore in cui si facevano determinati ragionamenti e si costruiva la personalità individuale, ha rinunciato al suo ruolo, pensando che debba essere la scuola a dare l’educazione e gli strumenti di giudizio e crescita ai ragazzi. Di lotta all’illegalità, di educazione alla legalità e di lotta alla mafia sentiamo parlare solo due o tre momenti all’anno, quando ci sono gli anniversari delle stragi». 

Perché?

«È stato lasciato campo libero anche da parte di chi faceva lotta alla mafia, perché magari si è stancato avendo sbattuto la testa troppe volte, si è sentito da solo e a un certo punto si è chiesto chi glielo facesse fare. Sono tutte questioni aperte. Anche perché, tolte alcune eccezioni, con l’antimafia non si mangia e la mafia, invece, ti arricchisce». 

Però c’è un abisso dal registrare la voce dell’antimafia civile al raccogliere le dichiarazioni del figlio di Riina.

«Oggi siamo ben oltre il Piano di rinascita democratica di Licio Gelli. Allora, con quel programma eversivo, si pensava di controllare il Paese soprattutto attraverso l’informazione, auspicando che da cani da guardia del potere i giornalisti diventassero cani da compagnia dei potenti. Siamo andati molto più in là: ora si mette sul podio la storia di Totò Riina attraverso la divulgazione in chiave eroica delle sue gesta. Pensiamo a Palermo, che nel 1993 ebbe come presidente del Consiglio comunale il magistrato Antonino Caponnetto, quale eletto dal popolo sull’onda emotiva delle stragi. Dal 2016, quello stesso Consiglio comunale ha concesso propri spazi, quindi spazi dei palermitani, al boss Nino Mandalà per presentare i suoi libri. Dunque, prima c’è stata una legittimazione della storia criminale e adesso siamo nella fase della premiazione». 

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«Pensiamo al settimanale “Gente”, che al figlio di Riina ha concesso il privilegio di esprimersi sulla situazione delle carceri in Italia. Attenzione, non è un caso, perché lì c’è la battaglia contro il 41-bis, che viene sostenuta, legittimata e condotta anche a mezzo stampa. Se tu vuoi affrontare il tema, molto serio, delle carceri in Italia, non lo fai dando parola al figlio di un boss. Queste figure dovrebbero già essere nel dimenticatoio. Un settimanale come “Gente” ha contezza d’aver dato voce a chi conduce una battaglia contro il 41-bis? Aspetto che intervenga qualcuno dall’Ordine dei giornalisti, che ha avuto diversi iscritti uccisi dalle mafie». 

I tempi sono quindi maturi per un ritorno all’antimafia culturale e civile, messa in ombra negli ultimi anni?

«È arrivato il momento per ricominciare a chiedere alle persone da che parte stanno. Ora dobbiamo tornare a schierarci. Purtroppo, l’antimafia civile è stata marginalizzata con il pretesto che è sempre meglio non parlare di drammi, tragedie, pericoli».

Che cosa hanno capito il Parlamento e le istituzioni europee in generale, rispetto al fenomeno mafioso? 

«Inizialmente, quando ero parlamentare europeo, non c’era alcuna consapevolezza da parte dei miei colleghi. È da lì che ho cominciato a girare tutti gli Stati membri dell’Europa, parlando con le associazioni, con il mondo dell’informazione, con gli organismi investigativi e con le magistrature. Questo proprio per avere il quadro chiaro da sottoporre in Commissione e poi in Parlamento. Dopo ho portato tutti gli elementi acquisiti alla Commissione Libe (Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo, nda). Dall’altra parte, c’è stata la scalata al potere a opera delle realtà criminali, con i grandi traffici di droga e con la strage di Duisburg, vicenda di cui mi sono servita per spiegare quanto in Germania fosse necessaria la collaborazione tra realtà investigative e realtà giudiziarie. Da lì siamo partiti». 

E dopo?

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«Poi molti colleghi di altri Stati membri si sono uniti a questa battaglia e abbiamo istituito la Crim (Commissione speciale sul crimine organizzato, la corruzione e il riciclaggio di denaro, nda), che è andata avanti per quasi due anni con audizioni in tutto il mondo. Di seguito il Parlamento europeo si è espresso in maniera molto netta, al punto che è arrivata la Direttiva sul sequestro e sulla confisca dei beni ai mafiosi. Andata via io, lo stesso Parlamento aveva due anni di tempo per fare in modo che il Testo unico antimafia della Crim diventasse Direttiva. Per raggiungere questo traguardo, però, c’erano dei passaggi burocratici tra Parlamento Ue e Commissione europea, che purtroppo non sono stati condotti». 

In che modo i politici italiani, soprattutto in Europa, e i politici europei hanno dato seguito a quello che voi avevate fatto con la Crim?

«Con il nulla. E ne sono rimasta molto delusa, perché dopo di me si sono insediate persone che hanno avuto la mia stessa tragedia familiare, però hanno pensato di fare ben altro. Da pochi mesi si è insediato Giuseppe Antoci, che conosco. Sono certa che lui proverà a dare seguito al lavoro che avevamo fatto noi con la Crim».

Come si sta muovendo Azione, per evitare infiltrazioni mafiose al proprio interno? 

«Una considerazione come premessa: quando una forza politica si apre alla mafia, non ha probabilmente contezza del fatto che mette dentro portatori di voti e di tessere che poi prendono in mano il partito. Negli ultimi mesi e nelle ultime settimane, non solo in Sicilia, sta succedendo di tutto, in fatto di infiltrazioni e complicità. Da poco è stata arrestata finanche una suora, che avrebbe portato informazioni all’interno delle carceri. Azione la pensa in maniera opposta: noi non vogliamo chiunque purché si faccia massa, purché si viaggi con cifre alte». 

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«Noi non facciamo promesse e non prendiamo in giro chi ha bisogno. Non ci rivolgiamo a chi svende il suo voto per 30, 40 o 50 euro, oppure per una spesa al supermercato. In Sicilia, in Calabria e in Campania è invalsa la prassi di approfittare dei deboli e fragili. Alle ultime Europee, per esempio, Azione ha fatto una campagna elettorale basata sui contenuti: senza speculare sul bisogno, abbiamo parlato di ciò che andrebbe fatto per il bene comune, di ciò che l’Europa avrebbe potuto e dovrebbe fare. Abbiamo parlato delle cose reali come l’agricoltura, la pesca, l’ambiente, la necessità di una politica estera comune e di un esercito comune con due guerre alle nostre porte.  Non abbiamo parlato di promesse di fondi europei da far arrivare a pioggia agli imprenditori che avrebbero portato voti. Azione, peraltro, seleziona le persone da coinvolgere nelle campagne elettorali e si rivolge a chi è in grado di pensare autonomamente perché non è limitato dal bisogno o mentalmente convinto che il voto serva per ottenere favori. Noi ci rivolgiamo a chi vuole cambiare il Paese in maniera onesta, in maniera meritocratica. Il voto è quanto di più sacro distingue la democrazia». 

Qual è l’indirizzo di Azione rispetto al contrasto della criminalità organizzata e alla tutela degli uffici pubblici dalle infiltrazioni mafiose?

«Non c’è una ricetta. Noi abbiamo deciso di partire dal coinvolgimento culturale, motivo per il quale io parlo con tantissimi studenti, in scuole e università. Il nostro obiettivo è mettere insieme contenitori che hanno un ruolo fondamentale nel mondo del lavoro, delle imprese, della cultura e dell’istruzione. È lì che devi far leva. Così intendiamo contribuire a educare le generazioni future, raccontando storie, portando esempi».

E poi?

«Altra cosa che, come Azione, sto facendo è dialogare con gli amministratori comunali di altri partiti. Per esempio, proprio di recente il mio partito ha organizzato un evento a Lecco sulla criminalità organizzata cui ho dato un contributo da relatrice, molto partecipato anche da consiglieri comunali di altre forze politiche che si sentono soli su questo fronte. Ricordo che Lecco da oltre 50 anni è stretta nella morsa della ’ndrangheta».

Come accade in Calabria, purtroppo.

«Due settimane fa sono stata proprio in Calabria: a Cittanova ho parlato con gli studenti di un polo di scuola superiore, ed è stato molto bello. Oltre a raccontarmi, ho chiarito come si può passare dai drammi personali all’impegno diretto. Al termine dell’incontro, sono stata assalita da un sacco di ragazze e ragazzi che mi hanno raccontato le loro storie».

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Per esempio?

«Un giovane mi ha raccontato che suo zio aveva denunciato minacce criminali e dunque è sotto scorta. Una ragazza mi ha raccontato che lo zio era stato ucciso dalla ’ndrangheta ma non c’entrava nulla, e vorrebbe che venisse riconosciuto vittima innocente delle mafie, ma la famiglia ha paura. Mi ha colpito una frase di questa ragazza: io voglio gridare il nome di mio zio insieme ai nomi delle altre vittime innocenti».

I partiti dovrebbero dialogare di più con i giovani?

«È una generazione che potenzialmente potrebbe essere determinante nella lotta alle mafie. Tra l’altro sto conducendo una battaglia perché sia introdotto il reato di apologia della mafia e con sanzioni severissime. Inoltre, sto lottando per evitare che le case discografiche vendano canzoni che inneggiano alle mafie, alla droga, all’utilizzo delle armi, alla violenza, al sessismo e alla violazione della dignità femminile. Spero che ci siano molti partiti disposti a sposare queste battaglie». 

Lo scioglimento delle Aziende sanitarie per mafia, da ultimo quello dell’Asp di Vibo Valentia, indica un fallimento del sistema pubblico? Perché c’è troppo silenzio su vicende del genere?

«Sì, è un grande fallimento. Il silenzio, poi, può essere un sintomo di sottovalutazione e di superficialità. Tuttavia, il più delle volte è sintomo di una compromissione. La politica calabrese, come quella siciliana, ha molte responsabilità su queste situazioni».

Oggi la comunicazione politica è sintetica, a effetto, emotiva, addirittura banale. Ciò non rischia di far perdere di vista le questioni più importanti? 

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«Sì. Nell’Asp di Vibo Valentia, per esempio, tutti erano al corrente di certe logiche, prassi, abitudini. Se un servizio interno a un’amministrazione pubblica viene affidato a un imprenditore vicino a una ’ndrina, che poi offre protezione, è chiaro che l’ambiente è insano. Altrettanto grave è se quell’assegnazione viene ripagata con pacchetti di voti. Spesso, il potere assegna qualcosa in cambio di protezione mafiosa e della garanzia di consensi elettorali. A prescindere dai colori politici, noi dobbiamo sconfiggere questo sistema».



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