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di Lorenzo Merlo

Siamo in costante ricerca di quel punto di equilibrio, fertile inseminazione di serenità, centro dal quale la vita non fa paura, le relazioni sono gioia, i malesseri ne risentono e ne sono alleggeriti o scompaiono, mentre tutto resta vissuto senza sperpero di energie avvitate intorno all’ego, anzi, trovando ed esprimendo bellezza e salute.

Nelle relazioni con qualsiasi oggetto, come un pensiero, una persona o anche una pietra, frustrazione e sofferenza possono essere presenti, in quanto implicite nelle inconsapevoli pretese che riempiono il nostro sguardo sul mondo, sul prossimo, su noi. Pretendendo che le pietre stiano come noi le poniamo e gli uomini sottostiano al nostro volere, nessun contatto, adeguato all’equilibrio, alla relazione soddisfacente, può realizzarsi. Parimenti, nessuna scuola si sprigiona da una relazione sbilenca. E tutto, costretto dal vincolo del nostro egocentrismo e importanza personale, trova il modo per ripetersi, per procuraci nuovamente pena. Significa che, liberi dal laccio, possiamo accedere a un mondo sconosciuto, sebbene formalmente identico a quello dal quale ci siamo emancipati. Un mondo in cui vediamo i guinzagli del prossimo, l’alfabeto con il quale descrive l’universo, la sua determinazione a crederlo il solo e, infine, la sua inidoneità a riconoscere l’universo altrui.

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Impilare le pietre, trovare quello stabile ma precario punto di equilibrio dà soddisfazione. Ogni sasso che si vuole aggiungere al delicato edificio corrisponde a una ricerca di un punto di scambio con la precedente.
L’universo di una pietra dai profili irregolari, al pari di quello di una persona, non può essere conosciuto a priori, esaustivamente, definitivamente. Rocce e uomini richiedono la medesima attenzione, il medesimo ascolto, lo stesso mettersi in discussione affinché la ricerca del punto di contatto sia soddisfatta, affinché, attraverso quel punto si possa avvertire l’avvento di una relazione autentica, di uno scambio reciprocamente vero, cioè della bellezza compiuta, di quell’istante in cui si crea un contatto, in cui l’equilibrio avviene, dove la relazione ha il carattere della sintonia, della complicità e dove scaturisce l’emozione dell’unione e del suo sentimento.

Tutto ciò non accade a mezzo di una legge statale o morale, non basta comprenderlo cognitivamente. Richiede invece una pratica corporea, affinché sia un’emozione a fornirci la sensazione d’aver fatto giusto o sbagliato, affinché, attraverso quella sensazione ci torni facile – e non orgogliosamente faticoso – rivedere noi stessi, il nostro fare.
Ciò che in psicoterapia, pedagogia, psicomotricità e in generale in certe pratiche didattiche è tecnicamente detto feed-back, di nient’altro si tratta che di ascolto. Se l’ascolto è una pratica e non una tecnica, significa che esso è incarnato e non solo capito. E, se è incarnato, esso sarà il ponte non solo per raggiungere la relazione con l’altro, ma anche per trovare noi stessi, per ampliare lo spettro di intelligenza creativa, pozzo senza fondo, con il quale comprendere le ragioni del mondo, fino a quelle a noi più oscure e lontane, fino a trovare la ragione morale, egoica e autoreferenziale che le aveva confinate nel buio, il più distante da noi possibile. Esso parifica noi e l’altro, implica pari dignità e reciproco rispetto, annulla la prevaricazione del giudizio, ci rende attori protagonisti degli eventi, esplora l’universo altrui e, contemporaneamente, il nostro, ci mostra l’inevitabilità di ciò che ci accade in funzione di come ci poniamo.

Pretese nascoste, assunzione di responsabilità, benessere, bellezza sono i frutti di un modo di guardare la realtà non più egocentrico ma relazionale, in cui l’altro viene scoperto e conosciuto. In cui questi ci apre le porte altrimenti ben serrate in quanto, senza più timori, può accreditarci d’interlocuzione. Allora, le reali ragioni delle affermazioni altrui ci offrono il percorso che le ha obbligate. Ma c’è di più nell’ascolto, c’è contemplazione. Con essa diviene evidente quanto e in che termini, l’altro è specchio di noi stessi, identico a noi nelle dinamiche che lo muovono, e perciò, ignaro rivelatore dei punti oscuri a noi stessi.

La modalità ricca ed evolutiva è quella esplorativa, già impiegata in tante occasioni quando eravamo bambini. Nell’esplorazione tendiamo ad essere disponibili a ciò che accade, ad essere delicati, consapevoli del nostro intento di scoperta. Siamo creativi, cioè capaci di rimodularci, di riproporci in altro modo, di sentire che ogni nostro atto ci vede assolutamente responsabili del risultato che esso tende a generare. Nella modalità evolutiva non c’è errore, in quanto in essa, nuovamente, c’è ascolto, così la caduta diviene scuola. E c’è osservazione disinteressata, la sola capace di dimostrare la nostra perenne responsabilità della condizione d’animo in cui versiamo.

Quando la modalità evolutiva è incarnata, cioè non è più solo intellettualmente capita, ma è stata ricreata, il fallimento, prima sorgente di frustrazione, ora lo è di informazione. La responsabilità prima attribuita, ora diviene nostra. La creatività prima latente, occasionale o inesistente, ora assume un carattere centrale di cui abbiamo consapevolezza e, soprattutto abbiamo i mezzi per riconoscere quanto l’inquinamento egoico tende a soffocarla e quanto invece la purezza disinteressata – figlia dell’emancipazione dal nostro giudizio – la lascia emergere.

Quando si gioca a mettere in equilibrio le pietre si sta meditando. Quel contesto, da materia diviene simbolo e metafora. Nella relazione tra i sassi, si evidenzia quella tra gli uomini. Il fastidio, l’ira, il rancore, l’uso della violenza, il desiderio di vendetta e quello dell’invidia di fronte a qualcosa che non va come sperato, la sofferenza per il mancato successo delle nostre spesso inconsapevoli aspettative, ma meglio sarebbe chiamarle subdole pretese, ci fanno vivere la vita nel medesimo modo penoso e avviene per la medesima ragione. Cioè quella egocentrica modalità di intellegere il mondo, totalmente sconveniente alla conoscenza, all’abbattimento della sofferenza.

La meditazione, utile a dare un significato diverso al fallimento e ad allenarci a non identificarci con le emozioni e con i pensieri permette di alleviare la dipendenza dagli introietti tossici con cui siamo stati allevati e siamo circondati.
Sebbene la sola permanenza della vita sia l’oscillazione è altrettanto vero che tutte le pratiche sono allenabili. Significa che, indipendentemente dal contesto in cui ci troviamo, una volta trovata in noi la sorgente della sofferenza, possiamo scoprire come impilare le pietre, ovvero come trovare la via della bellezza, della pazienza, della tolleranza, della pace.
Non possiamo eliminare l’oscillazione ma possiamo imparare a navigarla.

Lorenzo Merlo

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