Riccardo Cotarella, presidente di Assoenologi, è un orgoglio nazionale. A partire dalla sua terra, l’Umbria. Una carriera di successi e di premi (l’ultimo quello di Forbes), soprattutto un punto di riferimento internazionale per il mondo del vino.
– Partiamo dall’ultimo premio, appena ritirato.
È un premio molto significativo anche perché si scosta da quelli, diciamo normali, che ho ricevuto. Questo non è come enologo, ma come imprenditore e amministratore delegato della mia azienda. Quindi è un bel riconoscimento che accetto con tanto orgoglio e anche tanta voglia di migliorarmi perché non bisogna mai sedersi sugli allori del passato per inseguire invece, magari, quelli futuri.
– Questo del migliorarsi ogni volta è uno dei suoi credo.
Sì, direi che proprio la ragione è fondamentale: nel senso che il vino, il miglior vino che si farà è quello prossimo, mai quello del passato, perché questo ce lo chiede il consumatore. Quindi vini sempre più buoni, più rappresentativi, più tracciabili con l’origine e che possono arrivare in tutto il mondo per far dire ‘benissimo questo è uno buono, molto buono, e da dove viene? Dall’Umbria’. Questa è la mia missione come umbro, come enologo. Dove mi sposto, anche in una terra, diciamo, non vocatissima come il Giappone, lavoro per far sì che quel vino rappresenti una bandiera per quel territorio, che porti al territorio la conoscenza del mondo.
– Tema della conoscenza. Svolgimento: si è fatto abbastanza per promuovere il vino dell’Umbria?
Allora, quello che dobbiamo fare, che pratichiamo da anni, è che il vino deve essere raccontato. Se nessuno conosce questo vino, da dove viene, il produttore, l’enologo, l’uva, la stagione, il sistema di allevamento, allora non sarà mai lui un mentore, un ambasciatore del nostro vino.
– Beh, ma in fondo l’Umbria è un punticino
È vero che siamo un punticino nel mondo, ma questo punticino è molto significativo, per mille motivi. Noi in Umbria abbiamo delle eccellenze storiche, artistiche, personaggi che tutto il mondo conosce. Siamo una regione conosciuta nel mondo: perché non approfittare di questi elementi storici, sacri e artistici per dare al vino una immagine che, una volta assunta, sarà anche una immagine che trascina l’Umbria, per conto suo, verso un mare di consumatori e di amanti del vino? Quindi raccontarci, raccontarci senza inventare nulla, per quello che siamo e per quello che saremo. In questo senso anche le iniziative che porta avanti il Corriere dell’Umbria in questo settore, sono un mezzo importante di racconto per far amare il vino.
– Una bottiglia di vino rappresenta un territorio: tracciabile, da raccontare. Poi che altro?
Diciamo che bisogna capire un concetto fondamentale. Il vino non è una bevanda, questa è la realtà. Cos’è il vino? È un simbolo, è una sorgente di piacere e di cultura.
E’ un qualcosa che la natura ci ha dato, che distingue il vino da ogni prodotto dell’agroalimentare perché invecchiando migliora, non c’è limite. Noi abbiamo degustato vini di 40-50 anni fa, dei Sagrantini spaziali: l’invecchiamento migliora in maniera notevole questo vino tipicamente umbro, come anche altri. Il problema è sempre quello che io predico da anni: non dobbiamo pensare che la gente viene a noi, siamo noi che dobbiamo andare dalla gente per capire chi siamo, cosa produciamo. Mai dire il mio vino è buono, ci mancherebbe altro che non fosse buono.
Io non parlo mai di qualità perché è una cosa scontata. Dire che bisogna fare i vini buoni significa perdere tempo. Quindi dobbiamo occupare il tempo per dire alle persone che abbiamo dei grandi vini ma vogliamo raccontarveli. Una passione che ci trascina da anni, nell’amore per la nostra regione, nell’amore per la nostra agricoltura, nei nostri produttori.
Guardiamo cosa ha fatto la Toscana e noi ne siamo attaccati. Basterebbe quello per dire che ancora siamo molto indietro: dobbiamo andare avanti, ma ‘tanto tanto’ e non fermarci mai.
– Vengono tanti turisti, per fortuna, in Umbria. Molti chiedono delle bollicine locali, ad esempio, e c’è chi serve del buon Prosecco. Ripartire dal territorio nel territorio forse?
Questo esempio la dice lunga sulla preparazione. I vini necessitano di produttori preparati, enologi preparati, ma anche di divulgatori preparati.
Oggi in Umbria si fanno spumanti in metodo classico buonissimi, ma molti non lo sanno e confondono un prodotto come il Prosecco, che comunque ha la sua storia importante, ma che non può essere presentato come un prodotto della regione.
Quindi, ripeto, acculturamento a 360 gradi, perché se non siamo acculturati noi figuriamoci chi non è del settore. Questo va, ripeto, dal produttore al consumatore. Volete sapere perché non siamo preparati?
– Prego, non indovineremmo mai.
Perché il vino è un’accezione di cultura. Il vino è una questione di sangue, è passionale, attaccamento amoroso. Se non si capisce questo sarà sempre qualcosa da bere. Il vino non è da bere, è da degustare sapendo cosa degustiamo.
– Torniamo a come si fa il vino. La terra, il cielo ma poi interviene, deve intervenire, l’uomo. Ecco l’enologo. Un piccolo chimico?
Non perché sono un enologo ma credo che senza il tecnico, senza colui che conosce il vino per scienza, per cultura e per percorso di studi, i vini sono a rischio enorme di nascere con difetti, addirittura non commerciabili per questioni legali.
Abbiamo un esempio calzante purtroppo, nel mondo del vino. Su cosa significhi fare il vino da sé, cioè senza l’enologo. Giugno 1986, quindi parliamo quasi di 40 anni fa, c’è stato uno scandalo tremendo, il metanolo, dove morirono decine di persone.
Perché è successo questo? L’ignoranza di quella persona che ha usato questo alcol. Se avesse avuto un enologo alle sue dipendenze, gli avrebbero detto: ‘Ma cosa fai, così uccidi le persone’. Il vino è un percorso. Lasciarlo in mano a chi non sa, al fai-da-te, allo sprovveduto, significa andare incontro a problemi legali e comunque a una qualità che non ci sarà mai.
– Quindi come lo collochiamo questo enologo?
In primis il produttore deve essere conscio della necessità di un tecnico e allora questa figura è quella che deve seguire i vari processi, dall’impianto di un vigneto fino alla bottiglia, anzi fino alla degustazione.
Trasformare un grappolo in vino è un processo dove intervengono tre scienze: la chimica, la fisica ma soprattutto la biologia.
Significa che nel vino ci sono esseri viventi che non è che ragionano per fare il vino buono, vanno per la loro strada, per produrre aceto. Noi dobbiamo impedire questo e indirizzare il vino – e chi vive per il vino – verso la qualità. Questo lo può fare soltanto un enologo che è preparato, esperto, comunque acculturato, che ha fatto un percorso di studi di nove anni dove si parla di vigna, di uva e di vino e non da un improvvisato che magari non conosce la differenza tra quello che succede nel vino, nell’uva e nel mosto. Quindi non dobbiamo pensare a un piccolo chimico che interviene, ma anzi a una figura che rispetta il territorio appunto, a partire dall’agricoltura.
– Dietro c’è un mondo.
Tutto ciò che succede nel vino, nel processo di trasformazione, è di una complessità incredibile. Specialmente nella fermentazione tutto può cambiare in un momento per indirizzarci verso la qualità e il suo contrario.
Va seguito con molta attenzione perché dobbiamo arrivare a una tracciabilità che garantisca l’origine e allo stesso tempo che il percorso tecnico si indirizzi verso la qualità attraverso gli interventi. Non è così semplice.
– Capitolo vini naturali, che cosa ne dice?
Oggi sentiamo parlare di vini naturali, ma non esistono logicamente. Ci sono persone che fanno il vino a casa, ma come, con chi?
Allora se vuoi bere un vino buono è indispensabile dare in mano la produzione a uno specialista. Come la presenza di un chirurgo durante una operazione è indispensabile, come è indispensabile un pilota per guidare una macchina.
– Il vino viene prodotto per essere venduto. La difficoltà dei produttori è spesso quella di capire qual è il vino giusto, qual è l’attenzione da porre ai mercati che evolvono?
Il vino che dobbiamo produrre è quello del nostro territorio. Non possiamo fare un vino per il mercato soltanto. Fare cento vini per cento mercati nella stessa azienda con la stessa uva non solo non è possibile, ma non è auspicabile: perderemmo la nostra tracciabilità, la nostra rappresentatività territoriale.
Però non bisogna essere né sordi né ciechi al mercato. In questo momento, per esempio, c’è una rivisitazione dei gusti, non un cambio, non è uno stile. La rivisitazione dei gusti dipende dai tempi, dal modo di vivere così veloce.
La tendenza va verso vini cosiddetti più leggeri, che non è una parola molto significativa e molto esplicativa. Cioè vini bianchi, essenzialmente, e vini rossi non così corposi, complessi. Vini che non devono perdere la loro personalità. Attenzione, devono essere vini non banali, ma un pochino più accessibili.
– Tradotto?
Conteniamo nel limite possibile le gradazioni, vini più fruttati, più espressivi da un punto di vista olfattivo, dal gusto accattivante, mantenendo l’origine. Questo può farlo un enologo. Attenzione, non si chiede di snaturare un vino. Ad esempio il Sagrantino sta avendo un momento di rinascita, fatto con la stessa uva, nello stesso territorio, nelle stesse cantine, ma i produttori hanno capito che probabilmente quella esuberanza di carattere che è nella sua natura va gestita.
Un altro esempio è l’Orvieto classico. E’ stata fatta una modifica al disciplinare e ora si fa un vino più accessibile, molto più profumato, con una gradazione più bassa.
Bere un vino più semplice, più facile, meno alcolico ti dà la possibilità di bere senza esagerare, apprezzando caratteristiche che magari non apprezzavi: questo va incontro all’esigenza del consumatore odierno.
– Vini dealcolizzati. Qual è la sua posizione?
Breve storia delle mie posizioni in merito. Inizialmente il provvedimento mi ha dato fastidio tantissimo, perché andiamo a togliere dal vino forse l’elemento più importante, il collante di tutte le caratteristiche del vino.
Quindi ci sembra ancora adesso, ne siamo convinti, un po’ una snaturazione del prodotto originale. Ma abbiamo anche il dovere di pensare al mercato. Non chiamiamolo vino, che non è più un vino, è un derivante del vino. Procediamo a una dealcolazione che in questo momento sta avendo grossi benefici dalla tecnologia.
Permetterà ai produttori di dare una destinazione commerciale a una parte del prodotto verso consumatori che per motivi religiosi, di salute, non possono bere alcol e può avvicinare i cosiddetti astemi al vino, al vino vero. Quindi io lo chiamo un male necessario.
– Tendenze del vino 2025, che consigli dà ai produttori?
Vorrei dire nessun problema, purtroppo non è così. Il vino, e qui dimostra ancora la sua importanza, non essendo una bevanda, si consuma nei momenti di tranquillità, di gioia, di convivialità: matrimonio, anniversario, cena tra amici, al ristorante quando si racconta la giornata, si parla del lavoro. Quando una persona è preoccupata per motivi economici, sociali, di conflitto – le guerre, ce ne sono quante ne vogliamo oggi, purtroppo – l’economia ne risente. Quindi c’è una preoccupazione morale e una preoccupazione finanziaria. Il vino in questo campo trova sicuramente un po’ di difficoltà, ma durante la mia carriera ho visto questi sbalzi di umore e di consumo centinaia di volte. Devo dire che come il vino è il primo indicatore della crisi, sarà il primo indicatore della ripresa.
Mi preoccuperei fino a un certo punto, insomma.
Terminate le guerre, che prima o poi devono terminare, finite le crisi sociali, economiche, il vino ritornerà un grande compagno di vita per tutti gli uomini e le donne del mondo.
Il vino è un prodotto che non tradisce mai. Sarà sempre con noi, sulle tavole, proprio per festeggiare la fine della crisi.
Quindi ai produttori dico: andiamo avanti, in Umbria come nel mondo, facciamo vini buonissimi, raccontiamoci in ogni occasione.
– Lei è l’enologo dei vip. Lo fanno per soldi, per amore, potere, fama, passione?
Ignorantemente molti pensano che questi personaggi fanno vino così, o per scherzo, oppure perché è una voglia: gli è presa così, tanto poi smetteranno di fare vino perché è un flash nella loro vita e il loro atteggiamento non è passionale. No, è tutto completamente diverso. Si può parlare di Vespa, di Sting, di D’Alema, di Moratti, di chi volete: dei russi che io seguo, dei finanzieri svizzeri. Ritornano tutti alla terra.
C’è chi ha avuto successo in un campo artistico, giornalistico, del cinema, imprenditoriale ma quando vai a stringere, il lato di passione che ti dà la terra niente e nessuno lo dà. Tutti veniamo dalla terra e abbiamo voglia di tornarci. Da un punto di vista pratico queste persone che si dedicano al vino mettono su aziende spettacolose che danno lavoro a tante persone e riportano in alto l’economia. Benvenuti a questi benefattori.
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