Il potere è una scatola vuota per Al Julani

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Il crollo del regime di Assad e i raid di Israele consegnano al nuovo padroncino di Damasco, il jihadista Al Julani, un scatola vuota sulla quale è scritto «Ex Siria».
Bashar al Assad che si è fatto vivo da Mosca dando la sua versione della storia – «sono i russi che mi hanno chiesto di andarmene» – si è portato via la cassa.

Le riserve della banca centrale, due tonnellate di banconote e 250 milioni di dollari erano già stati trasferiti in passato in Russia, la sua cerchia di potere aveva acquistato un quartiere della capitale russa dove trasferirsi con i proventi delle rapine a danno del popolo siriano, del contrabbando e del traffico di droga.
L’apparato bellico delle forze armate siriane non esiste più. In questi giorni con centinaia di bombardamenti israeliani è stato disintegrato all’80 per cento, dalla marina all’aviazione, alle fabbriche belliche.

La nuova Siria per decenni non potrà ricostruire una capacità militare difensiva significativa, il che vuol dire che è attaccabile in qualunque momento e farà fatica a controllare un territorio dove le milizie abbondano. Pure l’Isis, a Est nel mirino degli americani, i quali dovrebbero proteggere i loro alleati curdi, lasciati al solito, al loro destino. Con l’occupazione del Golan le truppe israeliane sono a qualche decina di chilometri da Damasco: in pratica Al Julani, che ha flebilmente protestato con Tel Aviv, è letteralmente sotto il tiro della tecnologia bellica israeliana, come ha dimostrato la guerra in Libano attuata anche con l’eliminazione della dirigenza Hezbollah. Non gli conviene neppure nascondersi, è quasi un ostaggio.

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L’INCONTRO a Damasco tra Al Julani e l’inviato speciale delle Nazioni unite Geir Pedersen ha avuto risvolti quasi comici se di mezzo non ci fosse la tragedia di un popolo. Pedersen ha ribadito l’importanza di una transizione politica credibile e inclusiva, dichiarando: «La transizione deve essere guidata dai siriani e rispettare la sovranità e l’integrità del Paese». Ma certo, come no. Se Israele si è impadronita del Sud nel Golan e dei collegamenti con il Libano, a Nord Ankara, che occupa direttamente due cantoni siriani, ha scatenato le milizie filo-turche contro i curdi e il Pkk, che ora chiedono di trattare con Damasco.

DI QUALE «integrità» della Siria parla Pedersen? Il governo israeliano ha approvato un piano per raddoppiare la popolazione nella parte del Golan siriano occupata da Israele, ma afferma di non essere interessato a entrare in conflitto con la Siria, avendo preso ormai il controllo della zona cuscinetto monitorata dell’Onu. Israele ha conquistato parte delle alture del Golan durante la guerra arabo-israeliana del 1967, prima di annettere il territorio nel 1981. E gli Stati uniti, sotto l’amministrazione di Donald Trump, hanno riconosciuto questa annessione nel 2019, in violazione delle risoluzioni Onu. Tra un po’, con Trump alla Casa Bianca, Netanyahu e il suo governo di estremisti di destra sperano che gli Usa riconoscano l’annessione di tutto il Golan e delle colonie in Cisgiordania.

Si intravede già il solito giochetto coloniale israeliano del divide et impera. Nelle 34 località delle alture del Golan annesse da Israele vivono circa 30mila cittadini israeliani, oltre a 23mila drusi, una comunità che per la maggior parte si dichiara siriana ma ha lo status di residente in Israele. Ora qualche comunità drusa nella parte del Golan siriano appena occupato ha già chiesto di essere annessa a Israele. Tra pressioni esterne e forze centrifughe interne l’integrità territoriale della Siria appare grandemente sotto pressione.

Il terreno è già pronto. L’amministrazione Biden ha subito avallato la narrativa secondo la quale l’occupazione del Golan e i raid israeliani sono «misure preventive di legittima difesa» contro potenziali minacce provenienti dalla Siria. Insomma Israele può invadere tutto i territori che gli pare dei Paesi confinanti: la questione del doppio standard attuato sistematicamente dagli americani è diventata imbarazzante.

A meno che non rientri in una strategia più ampia, evocata tra sussurri e grida nei corridoi diplomatici, ovvero che se la Russia si è messa d’accordo per liberare la Siria da Assad – e ora tratta con Al Julani sulle basi russe – può anche negoziare sull’Ucraina. E anche questa volta la Russia, come spesso accade, non ha niente da dire. sull’occupazione israeliana del Golan. Forse non è un caso.

MAL DI LÀ delle questioni politiche e militari in Siria è in corso, certo non da oggi, una tragedia umanitaria. La metà del patrimonio abitativo è distrutto o inagibile, rendendo complicato anche il ritorno dei profughi, il 90% dei siriani vive sotto la soglia di povertà. Al Julani ha un bilancio statale stimato dal Financial Times in meno di 100 milioni di dollari: per fare un confronto Israele ha annunciato che nel raddoppio dei residenti nel Golan investirà circa 10 milioni di dollari, un decimo di quanto ha in mano il capo jihadista per gestire tutto il Paese. È evidente che i soldi della Turchia non basteranno e quindi si aprirà la corsa ai fondi delle monarchie del Golfo, in gran parte già aderenti al Patto di Abramo.

Il vuoto lasciato dalla caduta del regime di Assad pone interrogativi cruciali sulla sicurezza regionale e sulle dinamiche geopolitiche immediate e future. Ma è già chiaro che indebolita e stremata la Siria oggi lotta ancora per la sopravvivenza.



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