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Se Israele aprirà un’indagine indipendente e imparziale sui crimini che la Corte penale internazionale imputa al primo ministro Benyamin Netanyahu e al suo ex ministro della difesa Yoav Gallant, il tribunale potrebbe revocare i mandati d’arresto emessi una settimana fa. A dirlo alla radio pubblica israeliana Kan è stato ieri il portavoce della Corte, Fadi El Abdallah.
LE DICHIARAZIONI giungono nel giorno in cui il governo di Tel Aviv annuncia ricorso contro i mandati di cattura (ma Israele non aderisce allo Statuto di Roma per cui non ne avrebbe diritto) e il giorno dopo i passi indietro di Francia e Gran Bretagna: non arresterebbero Netanyahu se entrasse nel loro territorio perché coperto dall’immunità riconosciuta ai capi di stato (non si esprimono su Gallant, che non solo non è più ministro ma non è nemmeno un capo di stato).
Nelle stesse ore l’alto rappresentante Ue uscente agli affari esteri Josep Borrell ha insistito sui paesi europei perché rispettino la decisione dell’Aja («Non possiamo indebolire la Corte penale internazionale. È il solo modo per avere giustizia globale») mentre il ministro degli esteri israeliano Gideon Sa’ar si è detto certo che gli Stati uniti – che non sono firmatari dello Statuto di Roma – imporranno «molto presto» sanzioni alla Corte e a chiunque collabori con il tribunale.
Le picconate continuano da parte degli alleati di Tel Aviv ma non dalla Corte: Fadi El Abdallah ha solo ribadito uno dei principi fondanti il tribunale, quello di complementarietà che prevede l’intervento della Corte solo nel caso in cui lo Stato coinvolto non sia in grado o non voglia aprire un’indagine indipendente e imparziale contro gli stessi soggetti e gli stessi crimini.
Che Israele lo faccia è altamente improbabile: non lo fa per i singoli soldati, immaginarsi per il primo ministro; non lo fa per crimini individuali, immaginarsi per una politica di stato. Ma anche solo prospettarne la possibilità riapre il dibattito sull’effettiva democraticità del sistema giudiziario israeliano, lo stesso che fin dal 1948 puntella con sentenze e interpretazioni legislative il sistema di colonialismo d’insediamento israeliano e il regime di apartheid fondato sul suprematismo ebraico interno.
Su questo si sono espresse diverse commissioni indipendenti e delle Nazioni unite, dal rapporto Goldstone in poi: il sistema giudiziario israeliano ha sempre tutelato il sistema politico e istituzionale, non ha operato a fini di giustizia.
INTANTO DA GAZA nuove denunce confermano che i peggiori crimini che l’Aja imputa ai vertici israeliani – fame come arma di guerra e sterminio su base nazionale – proseguono. Secondo l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, Unrwa, da oltre 50 giorni l’esercito israeliano blocca ogni tentativo di consegnare aiuti al nord di Gaza.
Sotto assedio da inizio ottobre, sottoposto a una campagna militare feroce che si è tradotta in pulizia etnica, oggi conta tra i 65mila e i 75mila palestinesi, delle 400mila presenze precedenti. Tra il 6 ottobre e il 25 novembre, scrive Unrwa, nessuno dei 91 tentativi di consegnare aiuti a Jabaliya, Beit Lahiya e Beit Hanoun è andato a buon fine: a 82 missioni Israele ha negato il transito, a nove ha impedito il passaggio nonostante l’autorizzazione fosse stata rilasciata.
Sullo sfondo resta il totale controllo che Israele esercita sulla popolazione civile, su cosa e quando mangiare, su chi vive e chi muore, in un pezzo di terra dove quasi due milioni di persone – il 90% dell’intera popolazione – è sfollato e ha scarsissimo accesso ad acqua, cibo, rifugi e igiene.
Ieri i raid aerei hanno colpito tutta la Striscia, a partire dal campo profughi di Nuseirat, dove un cameraman di al Jazeera è stato ferito: «Nelle ultime ore – scriveva nel primo pomeriggio il giornalista Hani Mahmoud – un’intensa campagna di bombardamenti si è unita ai colpi dell’artiglieria e ha preso di mira non solo edifici residenziali e case, ma anche mosche e strutture pubbliche». Uno dei raid, aggiunge Mahmoud, ha centrato una casa piena di sfollati, «sette membri della stessa famiglia sono stati uccisi, altri sono intrappolati sotto le macerie».
Quattro uccisi a Rafah, 22 nel centro di Gaza, sei a Beit Lahiya. In totale il bilancio aggiornato è di oltre 44.300 palestinesi uccisi dal 7 ottobre 2023, al ribasso: non tiene conto di migliaia di dispersi.
DA PARTE SUA l’ultradestra israeliana continua a lavorare al reinsediamento coloniale a Gaza. La leader dei coloni Daniella Weiss ha detto a Channel 12 di aver visitato la Striscia «decine di volte» dal 7 ottobre 2023, la prima volta appena una settimana dopo.
Dichiarazioni che imbarazzano l’esercito che nel recente passato è stato costretto a smentire di averle concesso uno speciale permesso di ingresso. Sul fronte «istituzionale» il ministro Itamar Ben Gvir su X ha chiesto al governo di cogliere «l’opportunità storica di rioccupare Gaza e incoraggiare l’emigrazione volontaria dei nemici di Israele».
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