Il Forum degli Appennini 2024 di Legambiente presenta Ape Toe e il Piano per la conservazione dell’Appennino settentrionale.
La parola Lunigiana deriva dal latino Lunensis Ager, perché secoli or sono – vicino alla foce del fiume Magra – sorgeva la città romana di Luni, che esiste anche oggi con caratteristiche fisiche ovviamente differenti e in territorio ligure. Tra le mille contraddizioni tipiche della cultura italiana, questa è forse una delle più affascinanti: i confini della Lunigiana – quelli esatti – sono sfumati e sfuggenti, per cui questo lembo di terra si muove liberamente tra Toscana, Emilia Romagna e Liguria. È un po’ la natura stessa a definirne i territori e, per una volta, gli uomini obbediscono senza disperarsi. L’altra bellissima contraddizione è la presenza in Lunigiana delle Alpi Apuane – appartenenti in realtà al Subappenino toscano – ma talmente frastagliate da aver meritato il titolo e il nome delle sorelle maggiori che si stagliano poco più a nord.
È quasi un territorio nascosto e impervio, che da qualche anno Legambiente (con partner e stakeholder) sta cercando di valorizzare con il progetto Ape Toe (Ripristino Praterie e Foreste dell’Appennino Tosco-Emiliano), finanziato dall’Endangered Landscapes & Seascapes Programme e gestito da Cambridge Conservation Initiative in collaborazione con Arcadia. Qualche giorno fa, nella cornice di Fivizzano, l’associazione ha presentato – nel corso del Forum degli Appennini 2024 – il Piano per la conservazione dell’Appennino settentrionale. Tra le altre cose, il Piano – che in parte celebra i 30 anni del progetto APE Appennino Parco d’Europa – propone il ripristino dei paesaggi, il recupero delle foreste e del paesaggio agro-pastorale appenninico, ma anche un innesto di ripopolamento dell’area ormai da tempo protagonista di un massiccio abbandono, dovuto alla «marginalità rispetto alle traiettorie di sviluppo e per gli effetti del cambiamento climatico».
Il progetto Ape Toe e la tutela dei castagneti
«In questi giorni stiamo arrivando alla fase conclusiva di un progetto che è stata anche una sfida scientifica e culturale: Ape Toe. – ci dice Matteo Tollini di Legambiente – Abbiamo presentato il prodotto finale, il Piano per la conservazione dell’Appennino Settentrionale. Nello specifico, si tratta dell’area dell’Appennino tosco-emiliano che comprende anche le Alpi Apuane. Il risultato sono decine di azioni che basano l’obiettivo di migliorare la conservazione della natura sul recupero delle attività tradizionali. Abbiamo associato le attività che si facevano in Appennino, dai pascoli alla selvicoltura tradizionale e alla castanicoltura, ad un fattore di moltiplicazione della biodiversità. Stiamo cercando di individuare i servizi ecosistemici che le popolazioni di montagna offrono per garantire un sostegno. Questo per invertire la tendenza molto marcata allo spopolamento e all’abbandono. L’abbandono del territorio non è un miglioramento della natura, ma una perdita di biodiversità».
«Una delle azioni che abbiamo presentato e che candideremo a ulteriori sostegni è il recupero dei castagneti da frutto. – continua Tollini – Sebbene sia considerato un habitat semi-naturale, dagli studi ormai consolidati si è dimostrato che questo tipo di selve sono hotspot di biodiversità. Sono tra i pochi esempi in Appennino di boschi vetusti. I grandi castagni offrono habitat impensabili e addirittura creano un suolo con grande biodiversità. Cerchiamo di mettere in rete i castagneti vetusti per creare un corridoio ecologico che sarà meglio garantito se la coltivazione sarà attiva». Da qui anche la tutela della produzione di farina di castagne, diffusissima nel crinale tra la Valle del Magra e la Valle del Serchio.
In estrema sintesi, il recupero del territorio previsto dal Piano si basa proprio su azioni mirate di conservazione delle tradizioni locali, in una sinergia che coinvolge diversi attori del luogo, dai produttori alle cooperative. Nella pratica, è una prospettiva possibile?
Montagna Verde: come un antico borgo è diventato un albergo diffuso in un museo a cielo aperto
Piccoli segnali di resistenza sono in realtà già presenti in Lunigiana. È il caso di Montagna Verde in località Apella di Licciana Nardi, in provincia di Massa Carrara. Un ristorante-agriturismo-albergo diffuso che la famiglia di Mario Maffei (e soprattutto Mario, recentemente scomparso) ha tirato su dai resti dell’antico borgo di Apella e da ciò che rimaneva di una torre di avvistamento del 1000 d.C., trasformata nel 1700 in un’abbazia.
«L’idea di recuperare il borgo per ridare nuova vita a un paese che si stava spopolando parte da mio padre circa 35 anni fa. – ci racconta Barbara Maffei – Aveva 45 anni e ha iniziato a recuperare prima la torre di Apella per fare un agriturismo associato ad un’azienda agricola che valorizzasse la filiera della castanicoltura. Poi, anno per anno, ha recuperato le case natali a partire dalla sua nel borgo. A seguire quelle dei cugini. Quando anche i suoi figli hanno creduto nel progetto, il processo si è accelerato».
«Abbiamo iniziato a recuperare anche luoghi di produzione: il laboratorio del miele, il mulino, i locali di confezionamento dei prodotti. – prosegue – Oggi Apella può essere considerato un agriturismo diffuso, ma accanto all’ospitalità e alle casette, ci sono la casa privata e le seconde case che oggi si ripopolano. C‘è un ristorante, la possibilità di fare colazione nel borgo. Era il sogno di mio padre che oggi sta camminando».
In Italia – dove tutto trasuda storia e cultura – il recupero di un borgo abbandonato significa anche riportarne in vita la storia e il passato. L’albergo diffuso vanta quindi anche un eco museo e Casa Nardi, un luogo di memoria.
«Casa Nardi è storica. – ci dice Barbara – È il punto di partenza di quello che oggi è una sorta di eco museo diffuso, che chiamiamo dell’Alta Valle del Taverone perché coinvolge anche Taponecco e Tavernelle oltre ad Apella. È la casa dei due eroi del Risorgimento Biagio e Anacarsi Nardi che qui sono nati. Hanno partecipato ai Moti di Modena e alla spedizione dei Fratelli Bandiera, dando una forte spinta al movimento di Mazzini. Per questo Licciana, il nostro capoluogo, nel 1933 si è dato il cognome Nardi».
«Nel 2009 – continua – è stato realizzato un recupero di questa casa abbandonata per decenni ed oggi è un centro visita e un luogo della memoria. C’è un percorso di immagini e attrezzi d’epoca, tutto parte della comunità di Apella tra l’800 e il ‘900. C’è dunque un turismo di ritorno alle origini, ma il progetto è molto dinamico. Stiamo realizzando in una casetta anche un percorso legato alla canapa, altro elemento chiave della tradizione lunigianese».
Il piccolo borgo è attraversato anche da sentieri CAI e altri percorsi di trekking e, da poco, proprio Barbara ha dato vita ad un mulino in una vecchia stalla: in questo modo, l’attività di castanicoltura e di produzione della farina di castagne è gestita interamente dalla famiglia Maffei, che mette poi tutto a disposizione nel ristorante (frequentatissimo, soprattutto dopo aver partecipato ad Alessandro Borghese – 4 ristoranti), in cui a cucinare è tra l’altro Luca Maffei, fratello di Barbara.
I pastori della Lunigiana
Tra le attività previste dal piano, c’è anche l’istituzione di una scuola di pastori, attività che da sempre caratterizza la Lunigiana e ormai desueta. A parlarcene è Giancarlo Boschetti, allevatore custode della pecora Massese, antica razza autoctona della zona di Massa Carrara. «Di giovani pastori non ce ne sono. – ci racconta Giancarlo, che incontriamo a Tavernelle – Quando ero bambino c’erano quattro pastori nel paese. Sono rimasto solo, ma sono passati anche 50 anni. Verso Pontremoli i pastori aumentano un po’, ma sono pochi. Alle massesi ci devi stare dietro, devi curarle altrimenti non rendono. Ci sono alcuni che provano perché godono di cinque anni di contributi, poi smettono».
La vita del pastore non è di certo semplice («Mi alzo la mattina e mungo. – dice – Ci metto la vita nelle pecore, dalla mattina alla sera tutti i giorni») e Giancarlo è anche l’unico – tra questi borghi – a portare avanti la tradizione della transumanza a fine giugno: «Lassù è peggio – precisa – non ho corrente e dormo in roulotte». Eppure, parlando con Boschetti, più che un lavoro la sua sembra una missione. Fondamentale e imprescindibile.
Circondato dai suoi cani (che non badano al gregge, ma sono più fidati compagni di avventura), il pastore ci confessa che non potrebbe e non vuole fare altro. «I cani son la mia vita, come le pecore. Sono sempre con me. – precisa – Ho sempre fatto questo lavoro con mio padre, e prima lo faceva mio nonno». Pastorizia ma anche produzione di formaggi che viene poi venduto a pochi privati. Per non parlare della passione per i campanacci, che definisce senza mezzi termini «una malattia». «Sono una melodia. – prosegue – Ma dipende da quanti ne metti e io ne metto troppi. Una volta i pastori avevano 15 campane, era una musica. Io ho la casa piena».
C’è qualcosa di indescrivibile nel legame di Giancarlo con questi territori e le sue attività. Quando chiediamo conto di questa profondità appena percettibile ma tangibile, la risposta ha del filosofico: «La vita è questa. Bisogna conoscere le pecore. Ma è un mondo a parte quello dei pastori».
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