Le Corbusier, estasi coloristica sull’Acropoli

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«Lungo il pendio del percorso che conduce al Partenone, i primi gradini intagliati nella stessa roccia oppongono una prima barriera. Ma li sovrastano alti scalini di marmo, ostacolo decisivo alla scalata dell’uomo. I sacerdoti uscivano dalla cella, e, da sotto il portico, mentre percepivano la cerchia dei monti alle loro spalle e ai lati, il loro sguardo orizzontale se ne andava al di sopra dei Propilei verso il mare e i monti lontani che questo bagna». Così, con il piglio immaginifico di un viaggiatore del Grand Tour, scriveva Le Corbusier quando ancora si faceva chiamare Charles-Édouard Jeanneret.

Il brano è tratto dai ‘Souvenirs’. L’Athos e Le Parthénon, redatti tra il febbraio e il giugno del 1914, in aggiunta a un diario compilato nel 1911 durante un viaggio che aveva portato il giovane Jeanneret a toccare l’antico suolo delle regioni balcaniche, della Grecia e dell’Italia. La versione in italiano è di Andrea Guerra, che ha curato un prezioso volumetto edito da Mimesis nella collana «Estetica e Architettura» con testo francese a fronte (Le Corbusier, Ricordi dell’Athos. Il Partenone Scritti di viaggio e di estetica, pp. 178, euro 16,00).

Guerra ricostruisce le vicissitudini del diario, che – con le successive integrazioni – uscì postumo nel 1966, a cura di Jean Petit, col titolo Le voyage d’Orient (Les Éditions Forces Vives, Paris). Dieci dei diciannove capitoli erano già apparsi come reportage dal tono prettamente giornalistico tra l’estate e l’autunno del 1911 sul quotidiano svizzero di La Chaux-de-Fonds Feuille d’Avis. Per la maggior parte inediti, i capitoli relativi all’Athos e al Partenone furono invece donati allo scrittore e critico d’arte William Ritter dallo stesso Le Corbusier, che nel 1924 ne chiese la restituzione temporanea per utilizzarli nel libro Almanach d’architecture moderne (Les Éditions G. Crès et C.ie, Parigi 1925). Riconsegnati al proprietario, furono ereditati dal figlio adottivo di questi, Joseph Ritter Tcherv, per il cui tramite pervennero infine alla biblioteca municipale di La Chaux-de-Fonds.

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La separazione di tali manoscritti dal resto del diario è causa delle differenze che si riscontrano con il contenuto del Voyage d’Orient (pubblicato in Italia, sulla base del testo curato da Petit, nel 1974 per i tipi di Faenza editrice e a distanza di tempo, nell’84 e poi nel ’95, da Marsilio con la Fondazione Le Corbusier). Ciò che propone ora Guerra è una traduzione ex novo sui testi originali del 1914 conservati a La Chaux-de-Fonds, città natia dell’architetto della Cité radieuse. Si tratta di un certosino lavoro filologico, che se da un lato mantiene nel testo francese la traccia dei ripensamenti e delle modifiche effettuate di suo pugno da Jeanneret, dall’altro mostra la tenacia del curatore nel dipanare «frasi dall’andamento sintatticamente complesso» e nel chiarire un lessico che si presta all’ambiguità. L’interpretazione a cui giunge Guerra restituisce la sequenza di sostantivi, aggettivi e incisi che hanno lo scopo di far risaltare singole parole o concetti e di «produrre immagini quasi oniriche, espressione di uno stato emotivo».

Qualche anno dopo, infatti, i pezzi di cronaca del 1911 si erano trasformati in un «periodare più introspettivo», scaturito dalla possibilità di consultare appunti e immagini in una condizione non più pressata dalle contingenze del viaggio. I racconti dedicati alla «montagna santa» della Penisola Calcidica e all’Acropoli di Atene si discostano dai modelli esotici e romanzeschi (Loti, Chateaubriand, Gautier…) utilizzati da Jeanneret per la redazione del diario. Nondimeno, a sorprendere i lettori contemporanei sarà la forza di una scrittura visionaria, che – come spiega sempre Guerra nel bel saggio di accompagnamento ai due testi – rappresenta un mezzo per «depositare nella memoria il mondo delle immagini» nonché uno strumento per chiarire a sé stesso concetti estetici o principi formali acquisiti nel suo percorso attraverso lo studio diretto delle opere d’arte e dell’architettura.

«Su tutto questo racconto stenderò il colore ocra rosso: perché tutte le terre sono prive di verde (…) L’unità rossa del paesaggio si è comunicata ai templi. I loro marmi hanno uno sfavillio di bronzo nuovo contro l’azzurro. Da vicino sono realmente rossi come terracotta». Con queste parole «materiche» si apre il ricordo dell’ascesa all’Acropoli, la «roccia simbolica» che all’arrivo in Attica appariva e scompariva, come «uno di quei sogni che si accarezzano continuamente», dalla prua della nave sulla quale Jeanneret aveva trascorso notti stellate avvolto in un tappeto multicolore della Romania. I riferimenti quasi ossessivi alla pittura di cui è disseminato anche il resoconto estatico del soggiorno nei monasteri del Monte Athos – «un’atmosfera argento cupo, annerita dalla presenza di innumerevoli affreschi che narrano grandiose leggende, come tappezzerie aureolate di ori spenti, intessute di ocra rossa, d’oltremare, di verde, di cobalto» – derivano, evidenzia ancora Guerra, da un’estetica fondata sul colore, di cui Jeanneret si era impregnato sia tramite lo studio dal vero di Giotto e di Benozzo Gozzoli, sia attraverso l’influenza del suo maestro Charles L’Eplattenier. Senza tralasciare l’ammirazione per Cézanne, le cui tele aveva conosciuto prima di recarsi in Oriente grazie all’amico e compagno di viaggio August Klipstein.

Alla luce delle future realizzazioni di Corbu, il capitolo sul Partenone assume importanza per il valore di una riflessione acerba ma già complessa e tormentata sull’architettura antica (e non solo): «Il Partenone, macchina terribile stritola e domina», «dopo settimane di annientamento in questo luogo brutale ho desiderato che una tempesta venisse ad annegare nelle sue acque e nei suoi vortici il bronzo sferzante dei templi». Non un omaggio all’apogeo della classicità, dunque – «ma perché, così come tutti quelli che conosco, anch’io devo additare il Partenone, mentre sorge dalla sua terra di pietra, come il Maestro incontestabile, il tiranno, il dittatore, e inchinarmi persino con collera davanti alla sua supremazia?» – sebbene la divinizzazione delle «sacre» pietre si manifesti con la constatazione dei dettagli: «cercate sulle colonne scanalate, formate da venti pezzi, la giunzione dei rocchi: non la si vede, non la si trova, non si vede nulla a occhio nudo; ma neppure l’unghia, trascinata su queste superfici diseguali (…), perfino l’unghia non sente nulla».

In pagine di grande intensità, Jeanneret – qui tradotto con dedizione e ossequiosa passione – ci consegna un testamento novecentesco del rovinismo di matrice romantica rappresentato dalla Preghiera sull’Acropoli di Ernest Renan, acquistata dallo stesso Le Corbusier al suo sbarco ad Atene e «recitata» sul posto nelle sue visite quotidiane tra il 14 e il 27 settembre del 1911. Adesso che l’Acropoli, per effetto delle politiche scellerate del governo greco, mirate a cancellare le tracce primigenie della Rocca sotto passerelle di cemento per il defilé del turismo di massa, somiglia a un’attrazione disneyana in marmo pentelico, risuona come un’eco elegiaca l’invito di Le Corbusier: «Che un’allegrezza vi spinga sulla roccia nuda, priva dell’antico lastricato, e vi getti dalla gioia all’ammirazione, dal tempio di Minerva all’Eretteo e di là ai Propilei. Da sotto questo portico si vede il Partenone, nel suo blocco dominante, proiettare lontano l’architrave orizzontale e opporre il fronte come uno scudo a questo paesaggio concertato».



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