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Per volare vola e pare un gabbiano. Potente ed elegante, financo regale. Eppure Jonathan Milan, l’uomo sul quale il ciclismo italiano prova a ricostruire il proprio futuro pensando al proprio passato, si sente un toro. Sarà per quel suo fisico massiccio da granatiere – ottantaquattro chili distribuiti su centonovantatré centimetri di forza e potenza che nel gruppo lo rendono unico -, ma anche perché il ragazzo di Buja quando è in sella alla sua bicicletta è come se avesse davanti agli occhi un drappo rosso, che lo sollecita e lo attira fino allo spasimo.
Jonathan è gabbiano e toro, carezza e clava, brezza e uragano. È un insieme di cose che lo fanno l’uomo dell’anno, l’Oscar tuttoBICI 2024, atleta di riferimento e della speranza per il ciclismo italiano orfano di Vincenzo Nibali, ma anche di Cipollini e Petacchi. No, non è il nuovo Ganna. Semmai è l’evoluzione, la logica conseguenza e trasformazione del ragazzone di Vignone.
È il “bimbo” di famiglia, di mamma Elena e papà Flavio, anche lui ottimo dilettante. Vinceva le più belle corse internazionali: dal Belvedere al Del Rosso, da una tappa al Val d’Aosta a una alla Settimana Bergamasca. Anche un Mondiale, quello riservato ai militari, che gli aprì le porte del professionismo con la maglia dell’Amore & Vita di Ivano Fanini, ma la sua esperienza nel mondo dei grandi durò troppo poco: quanto la vita di una farfalla.
Jonathan è invece gabbiano e toro, il ragazzo che sentì il richiamo della bicicletta già a 4 anni. «Andavo con papà a vedere le sue corse e mi sono appassionato subito», ricorda oggi Jonathan. Papà preferiva qualcosa di diverso per il suo pargolo, tanto che provò con il tennis e il basket, lo sci e il nuoto, anche con le arti marziali: judo e karate. Niente, Jonathan aveva la fissa per la bici e papà Flavio gliela diede.
Arrivò persino a creare una squadra con un suo amico, Marco Zontone: la chiamarono Jam’s (acronimo di Jonathan, Asia e Matteo, il loro figli) Bike Team Buja.
«All’inizio era votata solamente al ciclocross e alla mtb, poi si è aperta anche alla strada», ci racconta Jonathan.
Jonathan, ma quanto c’entra il suo nome con il famoso libro di Richard Bach?
«Nasce da lì, piaceva ai miei genitori. Piace anche a me».
Come un gabbiano hai imparato a volare…
«Beh, in pista sono radente, su strada sto imparando a prendere il volo: quest’anno 11 vittorie, sono sulla buona strada».
È vero che adora collezionare le vespe vintage?
«Mi sono sempre piaciute. Non perché adoro le moto, ma perché mi piacciono le vespe».
Quindi gabbiano, toro e vespa…
«(ride), sono un bell’animale… È così, dopo l’Olimpiade di Tokio me ne sono regalata una del 1962: è bellissima. Quando torno a casa un giretto me lo faccio sempre. Sono anche iscritto al Club Vespa di Gemona: un giorno farò anche i raduni».
Lei è cresciuto nel Cycling Team Friuli di Roberto Bressan, una piccola fucina di talenti.
«Un ambiente tranquillo, che ti insegna a fare il corridore senza pressioni, ma con grandi attenzioni e rigore».
Ai mondiali di Ballerup, in Danimarca, l’unico oro l’ha portato lei.
«Mi ero programmato solo per la sfida individuale dell’inseguimento. Inseguivo il sogno della maglia iridata, quella che è stata per sei volte sulle spalle di Filippo (Ganna, ndr), mi sono superato, visto che ho anche realizzato il record del mondo (3’59”153, media di 60,212 km/h sui 4 km, ndr). Sia ben chiaro, il record del mondo non l’ho portato via a Pippo, ma non ho fatto altro che vendicarlo sul britannico Josh Charlton, che aveva migliorato il limite poche ore prima di me».
Si è reso conto di quanto è riuscito a fare?
«Lo sto realizzando solo adesso, con calma, dopo il tanto fragore. È tutto velocissimo, tutto scandito al millesimo di secondo, tutto programmato e quando ti rendi conto che il sogno è realtà e che a volte la realtà è meglio dei tuoi sogni ci vuole del tempo per prendere coscienza. A metabolizzare non sono velocissimo».
Quattro chilometri sono pochi, sono uno sforzo esplosivo come pochi. Dicono che lei quando accelera fa male.
«Questo non lo so, anche se non è un gesto così indolore. In quella progressione, in quel raggiungere la velocità di crociera, mantenersi in asse, procedere a tutta è il frutto di tanto lavoro, tanto sudore e tante ore di allenamento».
Quel giorno sembrava in stato di grazia?
«È stato così. Ho sentito che ero proprio corpo unico in sella alla mia bicicletta. E poi non dimenticherò mai l’abbraccio dei miei compagni di squadra: quello è stato il premio più bello».
E dire che c’erano tutti gli ingredienti per saltare di testa: in qualificazione l’inglese Josh Charlton aveva fatto davvero un capolavoro…
«Vero, ma io in certe situazioni ci vado a nozze. Fare la finale con uno che ha appena realizzato il record del mondo può condizionarti, può farti tremare le gambe. Io, invece, mi sentivo fortissimo. L’ha fatto lui, lo potevo fare anch’io».
Come si fa a mantenere una serenità così in certi momenti?
«Non lo so. Sono fatto così. Potrei dire ciò che ho già detto ad altri suoi colleghi: agitarsi non serve a niente».
E un pensierino al record dell’ora non lo fa?
«No, non mi sento ancora pronto (Ganna è il detentore dal 2022 con 56,792 km; ndr): quello è uno sforzo pazzesco, va preparato per bene. Pippo ha portato il limite davvero molto in alto, se lo vuoi superare devi essere super preparato, super motivato: devi essere super».
Questo era il primo anno alla Lidl Trek di Luca Guercilena, che voto si dà?
«Ho trovato un team bellissimo, che mi ha supportato in tutto e per tutto. Undici vittorie su strada sono un bel viatico, ma è solo l’inizio. So che devo migliorare ancora molto, che devo trovare i giusti sincronismi con il mio treno, però mi do in ogni caso un bell’8».
Forse l’unica giornata no è stata all’Europeo su strada, dove era dato tra i grandi favoriti.
«La Nazionale ha fatto un grandissimo lavoro, io un po’ meno. Mi sono incartato. Mi spiace soprattutto per i miei compagni di squadra che avevano dato l’anima per quell’obiettivo, ma ci rifaremo. Con il senno di poi posso anche dire che forse potevamo tirare meno, perché il gruppo si era ridotto di molto e quindi era più facile muoversi di conseguenza. Ma con il senno di poi…».
Ma è vero che la mamma non voleva che lei corresse?
«Mi ha sempre detto: non fare quello che ha fatto papà».
Ha sempre avuto un fisico così massiccio?
«In tre anni mi sono trasformato: dai 18 anni ai 21 è stata un’esplosione. Cambiavo scarpe e vestiti alla velocità del suono. Prima ero mingherlino».
Discoteca?
«Poco, quasi niente, non è il mio habitat. Preferisco i boschi».
Come gli elfi…
«L’ho anche fatto».
In che senso?
«I miei genitori da quando sono ragazzino portano avanti la tradizione dell’arrivo di Babbo Natale. È una tradizione che vive a Ursinins Grande, frazione di Buja. Un anno ho interpretato un elfo di Babbo Natale».
A proposito di regali: ma alla maglia verde del Tour ci pensa?
«È lì tra i miei pensieri primari. È un regalo che prima o poi vorrei farmi».
Si sente velocista o qualcosa di più?
«Sento di poter recitare un ruolo importante anche in alcune classiche. In cima alla lista c’è la Sanremo, ma anche la Gand e la Roubaix. Il Fiandre? Forse un giorno, bisogna essere più strutturati».
Nelle volate in cosa deve migliorare?
«Sicuramente nella posizione: devo stare meno all’aria».
Una frase che sente sua.
«Ogni tanto si vince, ogni tanto si impara».
Le vacanze?
«Con la mia fidanzata Samira alle Maldive, anche se io ho sempre amato di più la montagna».
Strano per un velocista… pardon, un gabbiano.
«Ma io sono anche vespa e soprattutto toro. Il toro di Buja come mi chiamano i tifosi e come amo essere chiamato. Un toro che vede rosso, ma ama l’azzurro del cielo e del mare, ama adora il verde della montagna. Il verde del via libera e della libertà».
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