La montagna nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

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Prendo a pretesto (applicandolo alle montagne piuttosto che all’arte) il titolo di un famoso saggio di Walter Benjamin nel quale, lo studioso, nel 1935, riflette, fra l’altro, su come le tecniche di riproduzione e diffusione delle opere d’arte in epoca moderna possono diventare strumenti per influenzare il comportamento delle masse. La tesi di Benjamin è quanto mai attuale, se consideriamo il profluvio, attraverso i media, di fiction che vogliono avere un’”aura” (per usare un termine caro a Benjamin) di veridicità: reality show, serial, linee verdi, bianche, blu etc. in TV, brevi real sui social. Ma nel grande calderone della virtualità che si propone come realtà dobbiamo annoverare anche le più classiche fra le fiction: romanzi e film. Capita, quindi, che, letto un romanzo o visto un film se ne assuma il contenuto come veritiero, reale, perfino iconico o rappresentativo di luoghi e comunità. Soprattutto oggi, che l’uscita di un libro o di un film importante, è accompagnata da interviste all’autore, articoli e recensioni, nelle quali la sua veridicità ne esce rafforzata. E Benjamin, se fosse vissuto oggi, ci avrebbe spiegato come quest’alluvione di virtualità contrabbandata per realtà ha la funzione di orientare i gusti dei consumatori, produrre pensieri dominanti anche nella cultura.

Fatta questa premessa, voglio soffermarmi sulla recente uscita pubblica dello scrittore Paolo Cognetti, che, in alcune interviste rilasciate a giornali generalisti come “La Repubblica” o a riviste specializzate come “L’Altramontagna”, ha rinnegato la sua originaria infatuazione per la vita in montagna, coincidente con l’uscita per Einaudi, nel 2016, del romanzo “Le otto montagne”, che gli diede notorietà, vendette un milione di copie nel mondo, vinse il Premio Strega e dal quale fu prodotto un film. Il succo di quelle interviste può essere così sintetizzato con le parole dello stesso Cognetti: «Il mio personaggio in parte è responsabilità mia, ma in parte no. Mi hanno disegnato così […]. Per tutti coloro [che vivono in montagna] il problema più grande è proprio quello delle relazioni umane […]. L’integrazione nella comunità è pressoché impossibile. Se sei abituato alla città […], lì ci trovi tante brutture ma anche tanta umanità. E puoi trovarci le persone che ti piacciono […]. In montagna non le trovi, o fai molta fatica»

Voglio soffermarmi solo sulle affermazioni di Cognetti riguardanti l’abiura della sua esperienza (inventata di sana pianta per pubblicizzare quel libro) di vita in montagna. Tali affermazioni cozzano in modo stridente, oltre che col messaggio veicolato all’epoca dal romanzo di Cognetti, anche con la realtà dei fatti. Non si può lasciar passare la bufala (grande quanto quella della sua presunta esperienza di vita in montagna) tesi che in città vi siano più umanità e più relazioni che in montagna, soprattutto se questa tesi viene da uno che i media hanno dipinto, dopo l’uscita del romanzo, come un maître a penser delle cose di montagna. Trovo che questa affermazione sia falsa quanto lo è l’altra – che in qualche modo emanava strumentalmente da quel libro – secondo la quale in montagna è tutto più bello, più vero e più buono.

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Città e montagne sono due facce della stessa medaglia: la Terra umanizzata, abitata, trasformata dagli esseri umani. Con la sola differenza che l’essersi, gli uomini, ammassati in grandi agglomerati urbani, è una scelta di convenienza, per sentirsi più protetti, per vivere più comodi, per avere più servizi. Mentre il vivere in piccole comunità nelle montagne è oggi una scelta ideale, dovuta quasi sempre al difendersi dalla massificazione, al conservare la propria cultura intesa come modo di stare al mondo, al cercare un maggior contatto con la natura. Al contrario dell’altra, quest’ultima scelta ha un costo molto alto in termini pratici ed economici: meno servizi, meno facilitazioni, mobilità più complicata, rischio spopolamento, attacchi speculativi deliberati, manomissioni del paesaggio da parte di chi intende procacciare risorse a basso prezzo per le sterminate conurbazioni delle pianure. Dunque, le montagne sono oggi, in parte, posti dove i cittadini si divertono e fanno affari, e nella maggior parte dei casi, luoghi a rischio spopolamento e devastazione.

Ecco perché le montagne non possono essere ridotte al salto con giravolta del Paolo Cognetti di turno, che rischia di mostrarcele, a suo piacimento, una volta come paradisi ed un’altra come inferni. In entrambi i casi producendo pura e semplice fiction fatta passare per realtà, che serve solo a vendere frodi culturali ed a produrre danni incalcolabili a luoghi e comunità. Le montagne hanno bisogno di esserci mostrate per ciò che realmente sono, luoghi fragili, dove gli abitanti devono arrabattarsi quotidianamente per sopravvivere, mantenere vive le proprie tradizioni, tutelare l’integrità e la bellezza dei paesaggi, difendere le terre alte da chi le considera un set televisivo per sempre nuovi reality, che di reale, però, non hanno proprio un bel nulla.

*Avvocato e scrittore

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