Sentiamo spesso parlare della Federal Reserve. E con ragione: essa ha avuto un ruolo cruciale in molti eventi economici globali, e la sua influenza è misurabile attraverso i dati che derivano dalle sue decisioni.
Un esempio significativo è la crisi degli anni ’70, caratterizzata da un’inflazione senza precedenti e politiche monetarie che hanno avuto ripercussioni globali.
Durante quel decennio, l’inflazione negli Stati Uniti raggiunse livelli record: nel 1974 toccò il 12,3%, per poi superare il 13,5% nel 1980. Questa crescita dei prezzi fu alimentata da due crisi petrolifere, la prima nel 1973-1974, innescata dall’embargo petrolifero imposto dall’OPEC, e la seconda nel 1979, in seguito alla rivoluzione iraniana. Questi eventi portarono il prezzo del petrolio a quadruplicare nel giro di pochi mesi: il prezzo del barile di greggio salì da 3 dollari nel 1972 a oltre 12 dollari nel 1974, e poi a 35 dollari nel 1981.
In risposta all’inflazione, la Federal Reserve, sotto la guida di Paul Volcker (nominato nel 1979), adottò una politica monetaria estremamente restrittiva, alzando il tasso di interesse sui federal funds dal 10% del 1978 a oltre il 20% nel 1981. Questo provocò una grave recessione: il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti passò dal 5,8% nel 1979 al 10,8% nel 1982, il livello più alto dalla Grande Depressione. Il PIL reale americano subì una contrazione significativa: nel 1980 si registrò un calo del -0,3%, seguito da un ulteriore calo del -1,8% nel 1982.
Questa stretta monetaria pose fine all’inflazione galoppante, che scese al 3,2% nel 1983, ma le sue ripercussioni furono globali. Molti paesi in via di sviluppo, che avevano contratto debiti in dollari durante gli anni ’70, si trovarono incapaci di ripagare i propri prestiti a causa dell’aumento dei tassi di interesse e del rafforzamento del dollaro. Questo portò alla crisi del debito latinoamericano degli anni ’80, che colpì duramente nazioni come il Messico, il Brasile e l’Argentina.
La crisi del debito colpì il Messico in modo particolarmente grave. Nel 1982, il paese dichiarò l’incapacità di far fronte al pagamento del proprio debito estero, che era esploso durante gli anni ’70 raggiungendo circa 86 miliardi di dollari. Questo portò a un forte deterioramento dell’economia. Nel 1983, il PIL messicano registrò una contrazione del 4,2%, mentre l’inflazione superava il 100%, impoverendo drasticamente la popolazione. Per affrontare la crisi, il Messico fu costretto a implementare politiche di austerità sotto la supervisione del Fondo Monetario Internazionale (FMI), che condizionarono i prestiti di salvataggio alla riduzione della spesa pubblica e a riforme strutturali. Queste misure, pur stabilizzando la situazione nel lungo periodo, aggravarono la disoccupazione e aumentarono le disuguaglianze sociali.
Anche il Brasile fu duramente colpito. Il debito estero del paese, che aveva superato i 90 miliardi di dollari, divenne insostenibile a causa dell’aumento dei tassi di interesse globali. Il Brasile affrontò un periodo di stagnazione economica, con una crescita annuale del PIL che scese a livelli vicini allo zero per gran parte degli anni ’80. L’inflazione, già elevata, raggiunse livelli iperbolici, toccando il 110% annuo nel 1983 e proseguendo con tassi ancora più alti negli anni successivi. Per contenere la crisi, il governo brasiliano adottò politiche di austerità simili a quelle del Messico, che provocarono proteste sociali e un ulteriore deterioramento delle condizioni di vita della popolazione.
In Argentina, la crisi del debito ebbe conseguenze altrettanto devastanti. Il paese aveva accumulato debiti per oltre 46 miliardi di dollari entro l’inizio degli anni ’80. La situazione peggiorò ulteriormente con l’inflazione, che superò il 300% nel 1983, riducendo il potere d’acquisto dei cittadini e distruggendo i risparmi delle famiglie. La recessione economica e la svalutazione della moneta nazionale portarono a un aumento della povertà e all’instabilità politica. Nel tentativo di ottenere prestiti internazionali, l’Argentina accettò condizioni rigorose dal FMI, che contribuirono a ulteriori tagli alla spesa pubblica e alla privatizzazione di aziende statali.
Un altro esempio del ruolo della Federal Reserve è la crisi finanziaria del 2008, quando la Fed abbassò i tassi di interesse quasi a zero (0-0,25%) e lanciò programmi di quantitative easing (QE). Durante il QE1 (2008-2010), la Fed acquistò asset per 1,75 trilioni di dollari, tra cui 1,25 trilioni di titoli garantiti da ipoteche e 300 miliardi di titoli del Tesoro. Queste misure aumentarono la liquidità e stabilizzarono il sistema finanziario, ma alimentarono il valore degli asset finanziari, contribuendo a una crescente disparità economica. A livello globale, l’espansione monetaria della Fed portò a una massiccia affluenza di capitali verso i mercati emergenti, seguita da un improvviso deflusso quando i tassi di interesse cominciarono a risalire dopo il 2013.
Tra il 2009 e il 2012, i mercati emergenti attrassero circa 2.000 miliardi di dollari in investimenti netti, sostenendo la crescita economica di queste nazioni. Questo afflusso contribuì al rafforzamento delle valute locali: la rupia indiana, il real brasiliano e il rand sudafricano registrarono apprezzamenti significativi rispetto al dollaro durante questo periodo. Tuttavia, l’afflusso di capitali favorì anche un’eccessiva dipendenza dai finanziamenti esteri e un accumulo di debiti denominati in dollari. Al 2013, il debito estero totale di molti paesi emergenti aveva superato il 40% del PIL.
Nel maggio 2013, il presidente della Fed, Ben Bernanke, annunciò che la banca centrale avrebbe iniziato a ridurre gradualmente il QE. Questa dichiarazione, nota come inizio del Taper Tantrum, causò il panico nei mercati finanziari globali, soprattutto nei mercati emergenti. I tassi di interesse sui titoli del Tesoro statunitensi a 10 anni passarono dal 1,6% a maggio 2013 al 3% entro dicembre 2013, mentre il dollaro si rafforzò rapidamente. Ciò aumentò il costo del debito denominato in dollari per i paesi emergenti e scatenò un deflusso massiccio di capitali, che toccò i 14 miliardi di dollari nei soli mesi estivi del 2013.
Le valute delle economie emergenti subirono svalutazioni significative. Tra maggio e agosto 2013, la rupia indiana perse circa il 15% del suo valore rispetto al dollaro, il real brasiliano si svalutò di oltre il 20%, e la lira turca e il rand sudafricano registrarono perdite superiori al 10%.
Queste svalutazioni aumentarono le pressioni inflazionistiche, poiché i costi delle importazioni (in particolare del petrolio e delle materie prime) crebbero rapidamente. Ad esempio, in India, l’inflazione superò il 10% annuo durante il 2013, mentre in Brasile raggiunse il 6,5%, il limite massimo della banda di controllo stabilita dal governo.
Il costo del debito estero divenne insostenibile per molti paesi, in particolare quelli con grandi esposizioni in dollari. Il debito totale delle aziende private in dollari, ad esempio, aumentò significativamente nei mercati emergenti durante il QE, raggiungendo circa 3.000 miliardi di dollari entro il 2013. Con il rafforzamento del dollaro e l’aumento dei tassi di interesse, molte aziende e governi si trovarono in difficoltà a rimborsare i prestiti. Questo colpì duramente le economie emergenti: il Brasile, che aveva registrato una crescita del PIL del 3% nel 2013, entrò in recessione con una contrazione del -3,5% nel 2015. La Turchia, con un’inflazione superiore al 7% e una crescita rallentata al 2,9% nel 2014, subì un ulteriore indebolimento della sua stabilità economica.
I mercati azionari e obbligazionari dei paesi emergenti registrarono perdite significative. Tra maggio e settembre 2013, gli indici azionari delle economie emergenti persero in media oltre il 12%, con alcuni mercati come quello brasiliano che registrarono cali superiori al 15%. Gli spread obbligazionari sui titoli in dollari emessi da governi e aziende dei mercati emergenti si ampliarono di circa 300 punti base, aumentando ulteriormente i costi di finanziamento.
Il Taper Tantrum mise in luce la vulnerabilità delle economie emergenti alle fluttuazioni nella politica monetaria statunitense.
Ancora, durante la pandemia di COVID-19, la Federal Reserve adottò misure senza precedenti per sostenere l’economia statunitense: ridusse i tassi di interesse a 0-0,25%, un livello storicamente molto basso, e avviò un programma di Quantitative Easing (QE) su scala massiccia, acquistando titoli del Tesoro e obbligazioni garantite da mutui.
Il bilancio della Fed crebbe da 4,2 trilioni di dollari nel marzo 2020 a 8,9 trilioni di dollari nel 2022, segnando un’espansione senza precedenti della liquidità disponibile. Contemporaneamente, l’offerta monetaria M3 negli Stati Uniti aumentò di oltre il 25% in due anni, un ritmo che non si osservava dalla Seconda Guerra Mondiale.
Le giustificazioni ufficiali per queste misure includevano la necessità di prevenire il collasso del sistema economico, sostenere le famiglie e le imprese durante i lockdown e garantire la stabilità dei mercati finanziari. Tuttavia, l’entità di questa espansione monetaria solleva interrogativi. È interessante notare che il volume di liquidità creato superava di gran lunga le necessità immediate dell’economia reale. Il PIL statunitense, dopo una contrazione del -3,4% nel 2020, rimbalzò con una crescita del 5,7% nel 2021, ma agli economisti monetari non è sfuggito che il ritmo della creazione di moneta andava ben oltre il recupero economico necessario.
L’espansione di M3, storicamente, non è mai stata un semplice esercizio di sostegno economico. Quando un paese si prepara a sostenere impegni straordinari, come una guerra, la capacità di generare e gestire liquidità diventa cruciale.
Durante la Prima Guerra Mondiale, la Federal Reserve fu lo strumento principale per mobilitare risorse attraverso l’emissione di obbligazioni di guerra. La Seconda Guerra Mondiale vide un’espansione monetaria simile, in cui l’offerta di moneta fu utilizzata per finanziare l’industria bellica e sostenere lo sforzo militare. In entrambi i casi, M3 non servì solo a stimolare l’economia interna, ma a costruire una base finanziaria per operazioni di scala globale.
Il periodo post-pandemia mostra delle similitudini inquietanti con quanto la storia ci insegna.
Tra il 2021 e il 2022, il mondo ha dovuto affrontare una crescente instabilità geopolitica, culminata con l’operazione speciale russa in Ucraina.
Gli aiuti economici e militari all’Ucraina, unitamente al rafforzamento della NATO, hanno richiesto risorse finanziarie straordinarie. Solo nel 2022, gli Stati Uniti hanno stanziato oltre 75 miliardi di dollari in aiuti militari, economici e umanitari all’Ucraina, una spesa significativa che si è aggiunta al bilancio federale senza apparenti difficoltà. Questo tipo di spesa su larga scala è possibile solo quando un paese ha già accumulato le risorse monetarie necessarie, come avvenuto durante l’espansione di M3 nel periodo pandemico.
In parallelo, il rafforzamento del dollaro, dovuto all’aumento dei tassi di interesse nel 2022, ha consolidato il potere economico americano, aggravando le difficoltà per i paesi emergenti che dipendono dai finanziamenti in dollari. Questo ha avuto l’effetto di rafforzare ulteriormente la posizione geopolitica degli Stati Uniti, riducendo l’autonomia economica di potenziali rivali o alleati riluttanti.
L’espansione di M3 durante il COVID, pur presentata come una misura di emergenza per salvaguardare l’economia, ha quindi creato una base finanziaria perfetta per sostenere un conflitto internazionale. In termini storici, la connessione tra espansione monetaria e preparazione bellica non è nuova. Le guerre richiedono liquidità, e la liquidità su larga scala richiede giustificazioni straordinarie. La pandemia potrebbe aver fornito l’occasione per predisporre un tale accumulo, mascherato sotto la necessità di reagire a una crisi sanitaria senza precedenti.
La Federal Reserve, istituita nel 1913, trovò nella Prima Guerra Mondiale il suo primo grande banco di prova. Con l’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto nel 1917, la Fed dimostrò rapidamente di poter essere non solo uno strumento economico, ma anche un potente braccio politico al servizio degli obiettivi strategici della nazione. Il governo americano, attraverso il sistema della Federal Reserve, fu in grado di finanziare lo sforzo bellico emettendo obbligazioni di guerra e mobilitando risorse finanziarie senza ricorrere a un’immediata pressione fiscale sui cittadini.
Questo meccanismo, che permise una mobilitazione rapida ed efficiente, rappresentò una novità per l’economia americana, che fino a quel momento aveva gestito le sue finanze pubbliche in maniera più prudente. Paul Warburg, uno dei principali architetti del sistema, descrisse efficacemente il ruolo della Fed affermando: “La Fed è il motore che permette a una nazione di mobilitare risorse senza compromettere la fiducia del mercato.”
Tuttavia, la capacità della Fed di espandere la base monetaria non fu priva di effetti collaterali. L’iniezione massiccia di denaro nell’economia, necessaria per sostenere il conflitto, portò a un’inflazione significativa. Tra il 1916 e il 1920, il tasso di inflazione negli Stati Uniti passò da circa l’1% a oltre il 20%, riducendo drasticamente il potere d’acquisto dei cittadini e aumentando le disuguaglianze economiche[i]. Il costo della vita aumentò rapidamente, colpendo in modo sproporzionato le fasce più vulnerabili della popolazione.
Questa espansione monetaria, pur giustificata dalla necessità bellica, consolidò un modello pericoloso: l’idea che il sistema bancario centrale potesse essere utilizzato come strumento politico. La Fed dimostrò di poter essere impiegata non solo per scopi economici tradizionali, come la stabilizzazione dei mercati finanziari, ma anche per sostenere direttamente le priorità strategiche del governo.
Questa lezione non andò perduta. Nei decenni successivi, il sistema della Federal Reserve divenne un pilastro della proiezione di potere americana, fornendo al governo la possibilità di finanziare guerre, sostenere alleati e influenzare l’ordine economico globale senza dipendere esclusivamente dalla tassazione.
La Prima Guerra Mondiale segnò dunque l’inizio di una nuova era per la Fed. Fu il momento in cui si dimostrò che un sistema bancario centrale poteva essere trasformato in uno strumento per mobilitare risorse in tempi di crisi, stabilizzando il mercato domestico mentre si esercitava un’influenza su scala globale. Tuttavia, la possibilità di utilizzare il controllo monetario a fini politici sollevò anche interrogativi sulla natura stessa della Fed, il cui mandato originario era strettamente economico. La lezione di quegli anni, con le sue promesse e i suoi pericoli, rimane una chiave di lettura essenziale per comprendere il ruolo della Federal Reserve nei momenti di crisi globali, sia passate che presenti.
La Federal Reserve e il keynesianesimo hanno un rapporto stretto e complesso, che si è sviluppato nel corso del XX secolo, in particolare dopo la Grande Depressione e la Seconda Guerra Mondiale. Il keynesianesimo, basato sulle teorie economiche di John Maynard Keynes, propone un ruolo attivo dello Stato nella gestione dell’economia, attraverso politiche fiscali e monetarie espansive per stimolare la domanda aggregata nei momenti di recessione. La Federal Reserve, pur essendo un’istituzione formalmente indipendente, ha svolto un ruolo cruciale nell’applicazione di tali principi, soprattutto attraverso la gestione della politica monetaria.
Negli anni ’30, durante la Grande Depressione, le politiche economiche degli Stati Uniti si allontanarono dal laissez-faire per abbracciare approcci più interventisti, in linea con il pensiero di Keynes. Il New Deal di Roosevelt fu accompagnato da un’espansione monetaria significativa sostenuta dalla Fed, che ridusse i tassi di interesse per facilitare il credito e sostenere gli investimenti. Sebbene la Fed fosse inizialmente riluttante a intervenire in modo massiccio, l’esperienza della depressione spinse l’istituzione ad adottare un ruolo più attivo nella stabilizzazione dell’economia.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, la Fed lavorò in stretta collaborazione con il Tesoro per mantenere i tassi di interesse bassi e finanziare lo sforzo bellico attraverso l’acquisto di titoli di Stato. Questo approccio rifletteva una chiara applicazione dei principi keynesiani: utilizzare la politica monetaria per sostenere spese pubbliche straordinarie senza immediata preoccupazione per il debito pubblico.
Nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, il keynesianesimo divenne l’ortodossia economica dominante negli Stati Uniti e in molti altri paesi. La Federal Reserve svolse un ruolo fondamentale in questa nuova era di politica economica, coordinando le sue azioni con le politiche fiscali del governo federale. Negli anni ’50 e ’60, la Fed adottò politiche monetarie espansive in risposta a rallentamenti economici, sostenendo la piena occupazione e il controllo dell’inflazione, obiettivi cardine del pensiero keynesiano.
Un esempio significativo di applicazione del keynesianesimo da parte della Fed si ebbe durante la presidenza di John F. Kennedy e poi di Lyndon B. Johnson, quando le politiche monetarie e fiscali furono combinate per sostenere la crescita economica. Questo periodo, noto come “Età dell’Oro del keynesianesimo”, fu caratterizzato da una crescita economica stabile e da bassi tassi di disoccupazione, resi possibili anche dall’abilità della Fed di gestire il ciclo economico.
La Federal Reserve è quindi un’istituzione unica, caratterizzata da una struttura ibrida che combina elementi pubblici e privati.
Questa dualità, sin dalla sua fondazione nel 1913, è stata fonte di dibattito e di tensioni tra le sue finalità di interesse pubblico e le dinamiche private che ne influenzano il funzionamento.
Il sistema è composto dal Board of Governors, che agisce come organo pubblico, da 12 Federal Reserve Banks regionali, che operano come entità private possedute da banche commerciali, e dal Federal Open Market Committee (FOMC), il principale decisore in materia di politica monetaria.
Dal lato pubblico, il Board of Governors rappresenta – in principio – gli interessi nazionali e definisce gli obiettivi economici, come la stabilità dei prezzi e la piena occupazione.
Tuttavia, la proprietà delle banche regionali da parte di istituzioni private e il pagamento di dividendi agli azionisti sollevano interrogativi sul reale equilibrio tra pubblico e privato.
La Federal Reserve è, di conseguenza, un’istituzione indipendente, le cui decisioni non sono soggette all’approvazione politica diretta.
Tuttavia, questa autonomia operativa la rende anche una delle entità autonome più potenti al mondo, capace di influenzare non solo l’economia statunitense, ma anche quella globale, attraverso il controllo della liquidità e della valuta di riserva mondiale: il dollaro.
“Give me control of a nation’s money, and I care not who makes its laws.[ii] (“Datemi il controllo del denaro di una nazione, e non mi interessa chi fa le sue leggi.”)
Questa celebre frase attribuita a Nathan Mayer Rothschild incarna il cuore del dilemma della Federal Reserve: la gestione del potere economico è uno strumento al servizio della politica o un’entità che condiziona le scelte politiche globali?
La Federal Reserve, con il controllo del dollaro, non solo stabilizza l’economia americana ma proietta l’egemonia degli Stati Uniti sul piano internazionale. Il suo ruolo si intreccia con la Dottrina Monroe, rafforzando il dominio economico americano tramite l’adozione del dollaro come moneta di riserva globale. Tuttavia, la natura privata della Fed e il suo potere decisionale autonomo sollevano dubbi profondi.
Alla luce di quanto detto, il quesito resta: chi controlla chi?
La politica guida la Federal Reserve sfruttandola per consolidare il dominio americano nel mondo, o è la Federal Reserve, con la sua struttura ibrida, a indirizzare le scelte politiche su scala globale, agendo da arbitro silenzioso delle sorti economiche e politiche mondiali?
Questa ambiguità non è un difetto casuale, ma una caratteristica sistemica del capitalismo moderno, in cui economia e politica danzano in un equilibrio fragile.
Ma mentre una certezza emerge – la Federal Reserve, ben più di un ente monetario, è uno dei centri nevralgici del potere globale – la risposta alla domanda di prima rimane aperta.
[i] Adam Smith credeva che il capitalismo, basato sulla divisione del lavoro e sulla libera concorrenza, fosse il sistema economico più efficace per aumentare la produttività e creare ricchezza. Tuttavia, riconosceva che questo sistema generava disuguaglianze economiche, poiché non tutti i partecipanti al mercato possedevano le stesse risorse o capacità.
Un passaggio significativo della sua opera chiarisce questa dinamica: “The whole annual produce of the land and labour of every country… is necessarily divided among three different orders of people: those who live by rent, those who live by wages, and those who live by profit.”
(“L’intero prodotto annuo della terra e del lavoro di ogni paese… è necessariamente diviso tra tre diverse classi di persone: coloro che vivono di rendita, coloro che vivono di salari e coloro che vivono di profitto.”)
Smith, A. (1776). The Wealth of Nations, Book I, Chapter XI.
La distribuzione della ricchezza, quindi, dipende dalla posizione di ciascun individuo nel sistema economico. I proprietari di capitale e terra accumulano maggiori ricchezze rispetto ai lavoratori salariati, che spesso ricevono solo il minimo necessario per la sopravvivenza. Per Smith, questa disuguaglianza non era un errore del sistema, ma una conseguenza naturale della proprietà privata e della divisione del lavoro.
Smith riteneva che le disuguaglianze potessero avere un ruolo positivo, purché limitate e compatibili con il progresso generale della società. Egli enfatizzava che il sistema capitalista, attraverso il meccanismo della mano invisibile, permetteva agli interessi individuali di concorrere al benessere collettivo:
“By pursuing his own interest he frequently promotes that of the society more effectually than when he really intends to promote it.”
(“Perseguendo il proprio interesse personale, l’individuo promuove frequentemente quello della società in modo più efficace di quanto farebbe se intendesse realmente promuoverlo.”)
Smith, A. (1776). The Wealth of Nations, Book IV, Chapter II.
In altre parole, l’accumulazione di ricchezza da parte di alcuni attori economici poteva favorire l’innovazione, gli investimenti e la creazione di opportunità economiche per la collettività.
[ii] Rothschild, N. M. (attribuito). Questa frase è riportata in numerose analisi storiche sull’influenza delle dinastie bancarie, anche se non compare in fonti primarie ufficiali. Una delle citazioni della frase si trova in Ferguson, N. (1998). The World’s Banker: The History of the House of Rothschild. London: Weidenfeld & Nicolson.
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