Donne nei conflitti – Donna Moderna

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A oltre un anno dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, la guerra in Medio Oriente continua inesorabile. Sono più di 1.500 i morti israeliani e un centinaio gli ostaggi ancora in mano agli estremisti palestinesi e, secondo le stime di Amnesty International, oltre 41.000 le vittime civili e quasi 2 milioni gli sfollati nella Striscia di Gaza a causa delle operazioni militari di Tel Aviv. Mentre i capi dei due schieramenti non vogliono interrompere le ostilità, due madri provano a costruire la pace. Sono le leader del movimento israeliano Women Wage Peace (womenwagepeace.org.il/en/) e dell’organizzazione palestinese Women of the Sun (womensun.org) che, con altre 1.500 donne avevano già chiesto una soluzione non violenta al lunghissimo conflitto.

Donne nei conflitti: due madri, una israeliana e una palestinese lottano insieme per la pace

Abbiamo incontrato Rita Brudnik-Erlich, coordinatrice del progetto israeliano Women Wage Peace, e Reem Hajajreh, direttrice dell’organizzazione palestinese Women of the Sun, in occasione di un recente incontro organizzato dalla rete Runipace-Bicocca all’Università Bicocca di Milano e coordinato da Adolfo Ceretti, docente di Criminologia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, esperto di mediazione reo-vittima.

Reem Hajajreh – Foto Getty

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Reem: «Nel 2021 ho fondato Women of the Sun per rispondere all’esigenza delle donne palestinesi di avere una “piattaforma” attraverso cui esprimere le loro idee e ottenere un maggiore coinvolgimento nella sfera politica. Le palestinesi devono poter esprimere la loro rabbia per le morti e gli arresti dei loro figli sia al proprio governo sia agli occupanti israeliani. In più, ci battiamo affinché le donne ottengano istruzione e libertà economica, perché non puoi godere della libertà politica se ogni giorno ti trovi nel bisogno. Ci siamo aperte alla collaborazione con le organizzazioni di Israele a partire dalla voce delle madri, che è molto lontana dall’astrazione dei partiti e richiama l’attenzione sulla necessità di proteggere i nostri figli. Noi donne dobbiamo avere più peso in politica, perché subiamo guerre dichiarate senza mai averci consultato, di cui alla fine siamo le prime vittime».

Rita: «Lavoro come coordinatrice del progetto Women Wage Peace, nato nel 2014, che oggi è il più grande movimento pacifista in Israele, perché ritengo necessaria una maggior incidenza femminile nei processi decisionali della politica. Contiamo sul sostegno di migliaia di donne di ogni fede e appartenenza ideologica, unite da una sola richiesta: la pace».

Le donne nei conflitti vogliono diventare protagoniste della pace

Qual è il valore aggiunto di associazioni di sole donne nella ricerca di una coesistenza pacifica tra i due popoli?

Rita: «Sono passati 24 anni dall’adozione della risoluzione 1325 dell’Onu, a favore del coinvolgimento delle donne nella risoluzione dei conflitti, e noi lavoriamo perché sia davvero attuata. Donne e bambini sono enormemente penalizzati, poiché rappresentano circa l’80% delle vittime, perciò vogliamo un posto al tavolo negoziale. Le notizie dei crimini sessuali e contro l’umanità perpetrati il 7 ottobre confermano che noi dobbiamo partecipare alle trattative. Lavoriamo già da 3 anni a elaborare una soluzione, con un approccio “olistico”: vuol dire che non guardiamo tanto a chi governa una certa parte di territorio, quanto all’educazione e alla salute delle persone che ci vivono. La pace è la sola via possibile per ottenere tutto questo».

Reem: «Noi donne siamo più della metà della società, siamo la maggioranza delle vittime di guerra, eppure veniamo escluse dall’ambito politico. Cercare la pace vuol dire favorire un ambiente in cui si discute di come evitare le guerre e garantire ai popoli sicurezza. Per noi non è importante chi comanda, bensì che vengano difese le nostre vite e quelle dei nostri figli. E la necessità di avere un ruolo nella costruzione di questo obiettivo risale a molto prima del 7 ottobre: questa è una data segnata da fatti drammatici, ma ha solo ingrandito una tragedia più profonda».

Quali attività ritenete importanti per convincere la società civile e le istituzioni ad avviare il dialogo?

Reem: «Noi lavoriamo su due fronti: da un lato, riteniamo che la società palestinese debba creare al suo interno le condizioni per la pace, evitando le divisioni e gli schieramenti, dall’altro, rafforziamo la coscienza politica delle donne affinché dialoghino con i rappresentanti del Paese. Per farlo, dobbiamo utilizzare un linguaggio che escluda la violenza e i ragionamenti strategici, basandosi semplicemente sulle emozioni delle madri e sulla difesa della vita. Cerchiamo di creare occasioni di incontro tra i nostri concittadini che generino fiducia nella possibilità di cambiare le cose. Speriamo nel supporto delle generazioni più giovani, affinché i ragazzi possano crescere in un contesto migliore di quello in cui siamo cresciute noi. E questa idea è condivisa con le donne di Israele, con cui lavoriamo a livello internazionale perché non si verifichi un inasprimento tra le due parti». In una recente intervista della BBC è stato chiesto a giovani israeliani e palestinesi se fosse cambiato qualcosa per loro dopo il 7 ottobre. Molti hanno risposto di non potersi più fidare l’uno dell’altro.

Le donne nei conflitti vogliono salvare i loro figli da una morte annunciata

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Rita: «Il coinvolgimento delle madri va avanti da molto tempo e siamo determinate a continuarlo perché usiamo una lingua diversa rispetto al linguaggio generale sul conflitto. Lo si vede nella petizione La chiamata delle madri (womenwagepeace.org.il/en/mothers-call/, ndr) in cui ogni parola è stata negoziata tra le donne dei due fronti: chi si trova dall’altra parte non viene mai né accusato né condannato. Il sondaggio della BBC evidenzia come sia difficile nutrire la speranza, ma dobbiamo tenere presente che molti in Israele vogliono la pace e sanno che è necessaria per terminare definitivamente il ciclo della violenza».

Reem: «Il nostro ruolo non è accusarci a vicenda, bensì salvare i nostri figli da una morte annunciata. Ogni giorno affrontiamo difficoltà crescenti, siamo ostacolate da coloro che sono contrari alla pace o che ci accusano di volere una pace basata sul tradimento del nostro popolo. La nostra strada è pericolosa e siamo state minacciate, ma la pace non arriverà da coloro che vogliono imporla con la forza. Verrà da noi, perché la stiamo costruendo non con la teoria, bensì nella pratica».

Hind Aboud Kabawat ha fondato un centro per il dialogo e la pace in Siria

donne nei conflitti Hind Aboud Kabawat
Hind Aboud Kabawat, fondatrice e direttrice del Syrian Centre for Dialogue, Peace and Reconciliation

Hind Aboud Kabawat è la fondatrice e direttrice del Syrian Centre for Dialogue, Peace and Reconciliation e il capo del comitato interreligioso di Tastakel, un’organizzazione dedicata alla pace e alla riconciliazione attraverso l’emancipazione e l’istruzione delle donne. In un Paese ancora diviso, in cui il presidente Bashar al Assad va riprendendo il controllo, Hind si impegna nello sviluppo della comunità locale, lavorando con i rifugiati siriani nei campi di Turchia e Giordania. Il suo impegno per le donne, spiega, nasce dal fatto che «gli uomini hanno creato questi conflitti, mentre generalmente alle donne e ai civili tocca il lavoro sporco di cura e gestione di una faticosa quotidianità. Eppure ai tavoli dei negoziati le donne non sono presenti, né si affronta il tema della loro istruzione. Tuttavia, se immaginiamo che un giorno la pace ci sarà, dobbiamo prevedere insieme cosa fare, sensibilizzando le giovani generazioni sulla giustizia sociale. La nostra missione è quella di avere donne leader, che siano preparate a comandare nella nuova Siria che nascerà dalle ceneri di questo conflitto».

Dall’esilio Shaharzad Akbar cerca di costruire un futuro di pace oper le donne afghane

Shaharzad Akbar è la direttrice dell’organizzazione afghana per i diritti umani Rawadari

Shaharzad Akbar è la direttrice dell’organizzazione afghana per i diritti umani Rawadari, (rawadari.org). Dall’esilio, lavora per far risuonare la voce delle vittime dei crimini di guerra. «Le donne non hanno mai potuto parlare con il governo, benché abbiano vissuto le violazioni dei loro diritti da parte sia dei talebani sia delle forze internazionali» racconta. «Quando le forze americane si preparavano a lasciare il Paese, abbiamo capito che volevano solo andarsene, non difendere le vittime. E né il nuovo governo né i leader talebani ci hanno voluto ascoltare. Al contrario, quando abbiamo fatto domande sul rilascio di 6.000 talebani autori di violenze, ci è stato risposto che stavamo distraendo i negoziatori dal processo di pace, in cui, peraltro, i diritti umani non sono mai stati menzionati». Shaharzad spera che il mondo non dimentichi la sorte delle donne afghane, presenti e future, perché tuttora le bambine non possono andare a scuola mentre i loro fratelli vanno all’università. «Un’intera generazione rischia di rimanere bloccata, silenziata, ma la violenza contro gli esseri umani non può essere normalizzata».





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