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Nel recente e dibattuto discorso del Capo di SME Gen. C.A. Carmine Masiello presso la Scuola Ufficiali di Torino, reso disponibile su YouTube in forma integrale nei giorni scorsi, vengono affrontati diversi punti riguardanti il futuro dell’Esercito, le sfide che lo attendono e ciò che lo contraddistingue. Tra l’altro, viene affrontato con chiarezza il tema dei cambiamenti in corso nel modo di fare la guerra (oltre che di quelli che verranno). Siamo sicuri di star guardando nella giusta direzione? Ma soprattutto, come si stabilisce una direzione?
Il Generale esordisce evidenziando l’importanza del ricominciare a chiamare la guerra col proprio nome, ammonendo rispetto ai cambiamenti (dovuti a mix di elementi passati, come le trincee e nuovi, riferendosi in particolare ai droni) degli ultimi anni, che caratterizzano la “[…] Rivoluzione Militare, una Rivoluzione di Affari Militari” in corso, riprendendo i termini di un ormai lungo dibattito riguardante le continuità e discontinuità nel mondo militare. Proprio per questo, uno dei punti centrali dell’importante discorso del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito riguarda la ricerca della superiorità tecnologica da parte dell’Esercito, che dovrebbe poi integrarsi gli altri componenti delle Forze Armate, permettendo così una maggiore efficacia operativa. In particolare, nel suo discorso il Generale afferma che: “Oggi vince chi è più tecnologico, tutto il resto sono chiacchiere, mi dispiace. In un confronto con l’asimmetria tecnologica esce sconfitto chi non ha abbastanza tecnologia per competere. Vince chi ha la superiorità tecnologica” (min. 13:47).
La questione è ovviamente complessa, tuttavia è possibile prendere in considerazione alcuni elementi critici per alimentare una discussione costruttiva sul problema, notando innanzitutto come la superiorità tecnologica non sia affatto sufficiente a determinare il vincitore di una guerra, non essendone neppure la condizione necessaria. Nella storia, in quella occidentale ma non solo, la supremazia nei conflitti ha sempre richiesto soluzioni multifattoriali. Non basta certamente guardare al recente passato, ma il primo esplicito riferimento è all’Afghanistan, un’esperienza forse troppo rapidamente dimenticata di fronte ai nuovi conflitti. Inoltre, e ancora più vicino, si può anche considerare come lo sforzo collettivo delle marine più avanzate al mondo non sembri essere sufficiente contro un nemico che rimane, tecnologicamente, a distanza abissale. Gli Huthi persistono, all’interno di un contesto più ampio, nel minare Suez e il fondamentale traffico commerciale che lo attraversa. La tecnologia è una delle componenti della guerra, non la sua chiave risolutoria, poiché non può determinare in modo autonomo il raggiungimento di fini strategici, che deriva da una combinazione di più aspetti.
- Il ruolo della tecnologia
Il dibattito sull’innovazione tecnologica delle forze armate ha una tradizione sicuramente secolare e, in un senso più ampio, millenaria. Nella cultura occidentale i dibattiti riguardanti la tecnologia militare sono stati accelerati dall’adozione bellica della polvere pirica e, soprattutto grazie all’amplificazione dell’invenzione della stampa, da quel momento la loro diffusione è largamente aumentata. Che si parli di rivoluzioni, evoluzione o trasformazioni militari, il cambiamento c’è comunque sempre stato. Inoltre, gli stessi attori militari operavano, a volte, in modo diverso a seconda dei contesti. È dunque impossibile individuare una modalità convenzionale unica nel modo di fare la guerra. A inizio Ottocento, con la messa a punto teorica occidentale per eccellenza, Clausewitz affermò che la natura della guerra nella storia non muta, mentre a cambiare sono i suoi caratteri, le sue dinamiche (per questo, la definì un camaleonte). La definizione continua a essere foriera di ricche riflessioni interdisciplinari, utili nel dissipare la complessità del fenomeno anche oggi.
Più che guardare alla superiorità tecnologica in generale, quindi, bisognerebbe prima discutere il tipo di conflitti che si pensa di dover preparare. In altre parole, è innanzitutto necessario che esistano degli obiettivi strategici per cui la tecnologia può fare la sua parte, agevolandone il raggiungimento. Il Generale Masiello nel suo discorso menziona l’attuale esistenza di 56 conflitti nel mondo, un dato che potrebbe essere anche ampliato o ristretto a seconda della definizione di conflitto adoperata per la selezione degli scontri. In ogni caso, quello che è certo è che in questo momento esistano diverse tipologie di guerra in atto, oltretutto non intensamente limitate, o illimitate, allo stesso modo per gli attori coinvolti.
Come affermato, quindi, è più che giusto pensare in termini non solo di reattività al presente, ma anche di proattività (min. 11:30), pensando alle sfide del vicino futuro (il riferimento, come esempio calzante, è all’Africa), evitando l’errore di pensare le guerre del futuro solamente come riproduzione o prolungamento di quelle presenti oggi. Anche su questo punto, però, bisognerebbe tenere in considerazioni ulteriori elementi critici. Per contribuire in forma iniziale a questo dibattito, ne menziono intanto due.
- Nuovi elementi per una discussione sulla Difesa
La lente strategica, innanzitutto: non esistono problemi e guerre in generale, ma determinate da attori specifici (e dalle loro volontà), oltre che da contesti geografici specifici. A meno che non ci si immagini solamente come oggetto/vittima universale delle guerre future, quindi, va effettuata una selezione prospettica, quantomeno dei luoghi da cui si pensa possano provenire i pericoli, oltre che da quali attori. Attraverso questa selezione deve poi passare poi un dibattito.
Inoltre, come già sottolineato anche dalla Società Italiana di Storia Militare (SISM) in un volume disponibile gratuitamente online, il problema delle guerre del futuro è anche un’entità storica, nel senso che è una questione che non si pone oggi per la prima volta e può, quindi, essere studiata. Considerare come nel passato le società abbiano immaginato le guerre del futuro può fornire alcuni elementi utili. Tra questi, la constatazione che questo sia anche e soprattutto un problema sociale e culturale, ovvero di come percepiamo le guerre in atto e come diverranno. Le ansie, le aspettative e i timori che rivolgiamo verso i conflitti del futuro non sono basati solamente su dati oggettivi ma anche sulla loro interpretazione. Certamente proattività, dunque, ma la direzione verso cui si guarda non può essere stabilita casualmente o solo in base all’atteggiamento altrui (a partire dagli stessi alleati, oltre che dai potenziali nemici).Una prima operazione generale per migliorare questo dibattito sarebbe, allora, quanto detto proprio dal Capo di SME a inizio del discorso, ovvero sottolineare il ruolo dell’Esercito: “La nostra missione non è creare burocrazia […]. L’esercito è fatto per prepararsi alla guerra” (min. 2:00). In questo modo potrebbe realmente avvenire una migliore integrazione con la società civile, non basato su una superflua presenza nelle grandi città, ma illustrando le specificità ed esigenze delle forze armate, facendole così riconoscere anche sul piano politico, che è quello che poi dovrà determinare le finalità per cui lo strumento militare agisce. Alla luce di questi obiettivi, allora, si potrà valutare ciò per cui ci si vuole preparare, cosa serve e cosa invece rimane superficiale.
La superiorità tecnologica in assoluto non esiste, è sempre tale rispetto a qualcun altro. La prima domanda da farsi, quindi, è proprio rispetto a chi la si vuole ottenere e perché.
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