La rivista il Mulino: Russia in Africa: il mercato dell’(in)sicurezza

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Dall’invasione a due fasi dell’Ucraina, nel 2014 e nel 2022, la Russia si è trovata improvvisamente orfana dell’Occidente e in cerca di nuovi alleati. Per contrastare l’isolamento, ha stretto legami più solidi con Cina e India, dando nuovo impulso al blocco Brics, così come con Iran, Bielorussia e Corea del Nord. Tuttavia, ancor più significativo è stato l’intensificarsi delle sue relazioni con i Paesi africani, dove ha cercato opportunità per espandere la propria influenza in un contesto politico particolarmente turbolento.

Mosca mancava da quelle latitudini dai tempi della fine della Guerra fredda. Ora è tornata soprattutto nella regione del Sahel, nel tentativo di rispondere alle richieste di sicurezza e sviluppo rimaste senza risposta dopo l’allontanamento delle potenze occidentali deciso dai governi locali. Ma, nel contempo, il Cremlino è attento a curare i propri interessi. Così, a partire dal 2010, ha ospitato due summit Russia-Africa, siglato 20 accordi di cooperazione nucleare e 43 di cooperazione militare, quadruplicato l’interscambio commerciale e venduto il 40% delle armi presenti sul Continente. Mentre l’influenza russa infiamma Bangui, Bamako e Niamey, a Parigi, Washington e Bruxelles si leccano le ferite.

Alla prova dei fatti, va detto, la Russia è soltanto il quindicesimo investitore estero in Africa, insignificante rispetto al valore rappresentato da Stati Uniti, Cina, Unione europea e Turchia. Il peso dei suoi investimenti diretti ammonta ad appena 18 miliardi di dollari, l’1% del totale. Le truppe russe contengono a fatica la rivolta jihadista e tuareg nel Sahel. La maggior parte delle armi russe è diretta a soli quattro Paesi: Algeria, Angola, Egitto e Sudan. Infine, i risultati del voto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite sulla risoluzione a condanna dell’invasione ucraina mostrano un continente diviso e la difficoltà di barattare proiettili per voti.

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Evidentemente, sono lontani i fasti dei colossali programmi di sviluppo industriale, agricolo e infrastrutturale promossi dall’Unione Sovietica in Africa. In passato, particolarmente sotto la leadership di Chruščëv (1953-1964), l’Urss trasferì macchinari, competenze e finanziamenti a Paesi di recente indipendenza, esibendo un modello di sviluppo alternativo a quello capitalista-occidentale, preludio alla diffusione globale del socialismo. La strategia sovietica era imperniata sulla teoria per cui senza sviluppo una sicurezza a lungo termine sarebbe stata improbabile. Di conseguenza fra gli anni Cinquanta e Settanta, inebriata dell’ottimismo per una rivoluzione globale, l’Urss istruì dozzine di intellettuali e leader africani e promosse progetti di sviluppo mastodontici, offrendo un modello di industrializzazione rapida fatto di riforme agrarie e piani quinquennali e ammantato di retorica anticolonialista. Al contempo, Mosca rifornì e addestrò movimenti di liberazione nazionale dal Mozambico alla Namibia e al Sudafrica, consolidando un’eredità sovietica di equipaggiamento, dottrina e pratiche operative su tutto il continente.

Con Brežnev (1964-1982), le relazioni tra Secondo e Terzo Mondo divennero sempre più militarizzate, trasformando il sostegno militare da gettone di solidarietà a fonte di entrate. Logorata dalla stagnazione domestica e dall’immane sforzo economico per i progetti di sviluppo all’estero, spesso minacciati da instabilità politica e inaffidabilità dei leader locali, Mosca optò per il pragmatismo. Non più solidarietà, ma vantaggio reciproco: gli investimenti sovietici dovevano avere un ritorno commerciale e assicurare risorse all’Unione. Armi per caffè, minerali, legname o cacao. Ed ecco l’inversione del mantra, ancora attuale: lo sviluppo non poteva né può essere sostenuto senza garanzie di sicurezza. La Federazione Russa oggi è pragmatica, militarista, in cerca di risorse e partner e in ristrettezze economiche. Ma che non si azzardi una facile analogia con il passato: le fratture sono più interessanti e maggiori delle continuità.

Il ritorno russo in Africa è dettato da una fortunosa corrispondenza di reciproci interessi e necessità. A causa dell’isolamento occidentale, il Cremlino ha un disperato bisogno di alleati diplomatici ed economici

Il ritorno russo in Africa è dettato da una fortunosa corrispondenza di reciproci interessi e necessità. A causa dell’isolamento occidentale, il Cremlino ha un disperato bisogno di alleati diplomatici ed economici. Gli uni per supportare politicamente le controverse iniziative russe presso l’Onu, gli altri per soddisfare la sete di risorse naturali, dare ossigeno all’industria bellica domestica ed eludere le sanzioni. Mosca si è dunque rivolta ad ex alleati e nuovi amici, in particolare nella fascia saheliana; non a caso, una regione ricca di oro, uranio, petrolio e altre risorse. In comune questi Paesi hanno l’emarginazione internazionale: Mali, Niger, Ciad, Repubblica Centrafricana, Sudan, Libia e Burkina Faso, per antipatia autoctona o disinteresse esterno, non sono più corteggiati da Ovest. Se l’Urss investiva risorse in Paesi contesi, ritenuti strategici per la competizione bipolare, oggi la Federazione Russa si accontenta di reclutare regimi randagi governati da giunte illegittime e claudicanti, attanagliati da sfide sul piano sociopolitico, economico e militare.

Europei, soprattutto francesi, e americani hanno tentato di rispondere alle ataviche sfide regionali – sottosviluppo, crisi climatica, separatismi centrifughi e jihadismo armato – con un cocktail di operazioni di contro-terrorismo, missioni di peacekeeping e aiuti allo sviluppo condizionati all’assorbimento di lezioni di democrazia e rule of law.

In un secondo tempo, l’idealismo di facciata si è però scontrato con la realtà e cerotti temporanei sono stati preferiti a soluzioni strutturali. In cambio di stabilità, intesa da queste parti come il mantenimento delle crisi all’interno della fascia sub-Sahariana per evitarne la metastatizzazione oltre il Mediterraneo, i governi occidentali hanno ipocritamente sovvenzionato regimi corrotti e tollerato massicce violazioni dei diritti umani. Tutto ciò, condito con una retorica neocoloniale e il fallimento operativo militare, ha portato i governi locali a cercare nuove soluzioni, cacciando ben volentieri francesi, americani e l’allegra brigata euro-atlantica.

Le crepe, si sa, vengono sempre saldate. È così che le giunte golpiste di Mali e Repubblica Centrafricana prima, e Niger e Burkina Faso poi, si sono rivolte all’unico attore disposto a garantire sicurezza e sviluppo senza condizionalità, riempiendo il vuoto lasciato dalla ritirata occidentale. Non affinità elettive, ma reciproca necessità: persino il Capitano Traoré del Burkina Faso, un tempo trincea antimperialista di Sankara, oggi stringe la mano di Putin e dei suoi accoliti.

Fra questi vi è Evgenij Prigožin, già eminenza grigia del Gruppo Wagner, Private military company (Pnc) a cui il Cremlino aveva appaltato le incursioni africane fino al fallito golpe di giugno 2023 e la sua misteriosa morte due mesi dopo. Non si trattava di un dissapore isolato, come mostravano già le sfuriate del leader Prigožin su Telegram. Wagner, pur beneficiando del supporto malcelato del Cremlino – le Pmc sono formalmente illegali in Russia – aveva sviluppato in Africa interessi economici e politici propri che talvolta mettevano il gruppo in collisione con il governo. Ad esempio, in seguito al colpo di Stato in Niger a luglio del 2023, Putin si mostrava cauto, mentre Prigožin fomentava i golpisti. D’altronde, il caos susseguente poteva risultare destabilizzante per l’uno, o una miniera d’oro per l’altro. Oggi le operazioni delle erratiche Pmc russe in Africa – Wagner, Redut, Bear e altre, troppo importanti per fallire – stanno venendo lentamente inglobate dall’Africa Corps, organizzazione-ombrello diretta dall’intelligence militare. Nel frattempo, mercenari russi scorrazzano ancora per l’Africa, con e senza il placet di Putin.

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Le giunte militari che contrattano con la Russia affrontano un paradosso. Sebbene cerchino assistenza militare per affrontare minacce interne ed esterne e assicurare il proprio potere, barattano la sicurezza a lungo termine con stabilità qui e ora. Ad attrarle, armi a prezzo di mercato e romanticismo sovietico. La Russia strumentalizza la tradizione di cooperazione con l’Africa come arma di seduzione, dissimulando il proprio opportunismo dietro una retorica di antica fratellanza e finta parità proiettata nel presente. Putin si pone infatti come il campione di una modernità alternativa illiberale, antimperialista e social-conservatrice per attrarre Paesi insoddisfatti dell’ordine internazionale, così da guadagnarne peso economico e politico. In barba a ogni terzomondismo millantato, sono gli interessi russi a prevalere su quelli locali.

Putin si pone come il campione di una modernità alternativa illiberale, antimperialista e social-conservatrice per attrarre Paesi insoddisfatti dell’ordine internazionale, così da guadagnarne peso economico e politico

Ma se la pars destruens pare funzionare, rispetto all’epoca sovietica è assente una pars construens, cioè la proposta concreta di modelli di sviluppo alternativo. Lo sviluppo locale è assente dall’equazione militarizzata russa, che prende forma senza scrupoli né condizionalità democratiche. La ricchezza generata da questi sinistri affari viene distribuita tra le élite contraenti, trascurando la popolazione e inasprendo le disuguaglianze. Non è un caso che dall’arrivo delle milizie russe, la situazione umanitaria nel Sahel sia visibilmente peggiorata.

Operando in ogni settore economico per mezzo di una torbida galassia di attori semi-statuali, la Wagner coltiva relazioni olistiche e clientelari secondo un modello di business agile, violento e redditizio. Il pacchetto proposto è all-inclusive: armi, sostegno militare e antiterrorismo, consulenza diplomatica e di comunicazione, campagne di propaganda online, estrazione mineraria e persino birrificazione. La Russia ci guadagna influenza politica e risorse chiave. E ancora, commesse militari e il riciclaggio di rubli insanguinati. In cambio, i leader locali ottengono assistenza di sicurezza e una guardia pretoriana per impermeabilizzare il regime alla popolazione. Infatti, non è neppure necessario che le truppe russe conseguano successi operativi, come dimostrato in Mali e Mozambico. L’importante è che, in caso di fallimento, le giunte siano isolate dalle ripercussioni delle mancanze sul piano economico-sociale, democratico e militare.

Così Mosca fa e disfà tutto da sé, creando la domanda per i propri servizi. In una prova di grande savoir-faire imprenditoriale, lo stesso attore serve il veleno e vende l’antidoto. Stentando a portare sviluppo e sicurezza, offre un pacchetto di sopravvivenza del regime, con tecnologi politici e mercenari per fronteggiare le crisi a peso d’oro (letteralmente), senza alcuna velleità di rimodulare il destino politico locale.

Assenti grossi investimenti infrastrutturali – oggi in mano alla Cina – non sorprende che la diplomazia mercenaria del Cremlino tragga nutrimento proprio dall’instabilità. L’insicurezza è un affare redditizio, e Mosca calcola il livello di violenza e rischio necessari per giustificare i propri profitti al punto che le cause originarie dei conflitti non sono più i soli motori della violenza, con avidità e speculazione a influenzarne sempre più il corso.

In Repubblica Centrafricana, dopo aver pacificato il Paese manu militari, pare che il Gruppo Wagner stia fornendo armi e addestramento non solo alle forze governative del dittatore Touadéra, ma anche a ribelli locali e a soldati sudanesi. In Sudan, la Russia fa il doppio gioco tra i due leader più influenti del Paese, il Primo ministro al-Burhan e il suo vice “Hemedti”, per mantenere uno status quo favorevole ai suoi interessi nel settore aurifero e portuale. Proprio l’oro del Sudan è linfa vitale per il regime di Putin dissanguato dalla guerra in Ucraina, e raggiunge Mosca tramite la testa di ponte libica dove il Gruppo Wagner affianca il generale scissionista Haftar, impedendo un processo di riunificazione democratica del Paese.

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Dopo l’estradizione occidentale, la Russia è stata riconvocata a latitudini equatoriali per portare sicurezza e sviluppo. Ha risposto opportunisticamente con mercenari e armi, ha seminato caos e vi ha prosperato, ha supportato regimi corrotti e violenti e finanziato ostilità, infischiandosene dei diritti umani e della crescita locale. Una volta ancora, l’attenzione esclusiva per l’aspetto militare da parte di attori esterni ha portato poca sicurezza, ancor meno sviluppo, allo Stato richiedente. Nulla di nuovo, per un Continente tristemente abituato alla predazione.



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