Storia della moda e delle giornaliste di moda italiane

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L’espressione crear se stessa è opera di Sibilla Aleramo: la utilizza a conclusione di un articolo uscito nel 1930 sulla nuova tendenza delle donne a tagliarsi i capelli corti o “alla maschio”, come si diceva. Per l’autrice di Una donna le sue contemporanee devono «acquistar fisionomia e autonomia», ossia prepararsi, presentarsi e rappresentarsi così come sentono vicino a loro e, se questo vuol dire abbandonare i capelli lunghi o indossare uno smoking maschile, ebbene sia! Non è un gesto di ribellione ma di riconoscimento di se stesse.

È questo uno dei primi contributi della preziosa raccolta Crear se stessa. Storia della moda raccontata dalle scrittrici, pubblicato da Rina Edizioni a cura di Michela Dentamaro, con una luminosa introduzione di Olga Campofreda (che di Aleramo aveva parlato, insieme ad Alba De Céspedes, al Miu Miu literary club da lei diretto a Milano questa primavera).

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“Se ci è chiaro tutto quello che la moda oggi rappresenta” scrive Campofreda nella introduzione, “che cosa ha significato invece cominciarne a scrivere?”. Quello che adesso trovate in libreria è infatti il primo volume di due e raccoglie articoli di costume redatti da alcune scrittrici-giornaliste che conoscete bene e altre che non avete ancora mai sentito nominare tra il 1870 e la fine del 1920. “Ripercorrere la storia del giornalismo di moda in Italia” commenta Campofreda, “è un processo davvero entusiasmante. In un mondo costruito dagli uomini per gli uomini […] i giornali sono il palcoscenico su cui si muovono i primi passi di una grande rivoluzione”.

Ed è davvero interessante vedere come le donne si siano affacciate nel mondo editoriale da questa precisa angolazione, quella della moda e della presentazione di sé, per almeno due motivi principali: questo è un argomento di cui alle donne è permesso parlare, perché considerato dagli uomini del tempo (e forse anche da quelli di oggi) superficiale e poco politico, e, secondo, perché qui si vedono tutte le contraddizioni e i paradossi dell’essere primariamente visibile connesso alla condizione femminile. Provo a spiegare cosa intendo.

Intanto lo spazio sui giornali viene lasciato a patto che, in qualche modo, si accetti pubblicamente che non si tratta di argomenti poi così cruciali. Scrive, nel 1876, la Marchesa Colombi sulle pagine del Corriere della Sera: “Se qualcuno ha trovato la mia prima corrispondenza troppo frivola per un giornale politico […] dovrà convenire almeno che non ho abusato del mio biglietto d’ingresso nelle pagine del «Corriere»”. Sembra che si stia scusando per essersi per così dire permessa di scrivere di moda sulle pagine di un quotidiano, ma poi aggiunge: «Ho ceduto umilmente il passo ai Sultani vivi e morti; ai ministri assassinati, ed agli assassini di ministri, à tout seigneur tour honneur.” C’è tanta ironia nelle sue parole: infatti, questi giornalisti, così seriosi e così impegnati che non hanno il tempo di preoccuparsi di vestiti e costume e la guardano dall’alto in basso, si rivelano poi ossessionati dalle partite di biliardo che giocano nella saletta limitrofa alla redazione.

Così, Colombi, un po’ come le influencer che dicono this is for the girls, incitando i ragazzi che l’algoritmo ha portato sul loro canale a continuare a scrollare, scrive sempre sul Corriere: “So che certe cose non si dicono volentieri a tutti; ma a me possono parlare con sicurezza perché siamo vecchie amiche, e sanno che le loro confidenze rimaranno sepolte nel segreto del Corriere della Sera». Può una confidenza essere mai al sicuro quando è stampata sul primo quotidiano di Italia? A quanto pare sì, perché figuriamoci se gli uomini presteranno mai attenzione alla sua rubrica di moda. Roba da donne, etc. etc.

Ci sarebbe tanto da dire anche su come queste giornaliste si rivolgano alle loro lettrici sempre come vecchie amiche, tranne che, ovviamente, non le conoscono: è un trucco per creare intimità e complicità, lo stesso usato dalle influencer che, invece che dirvi, “vi faccio vedere i vestiti che mi ha mandato il brand X per pubblicizzarli”, vi dicono “aiutatemi a scegliere un vestito per un matrimonio che ho stasera”. Si riducono sempre all’ultimo minuto o è un modo per dirvi “ehi tu sii mia amica, dammi una mano” mentre invece è tutta un #adv? Lauren Berlant chiama la “cultura femminile” questo passare per il personale per creare alleanze che lo vogliate o no, ma appunto, il discorso è lungo e c’è ancora tanto da dire.

Scrivevo infatti che queste giornaliste usano quello spazio per discutere di questioni che sono, sempre, anche politiche, anche se non lo sembrano agli uomini. Per esempio Sibilla Aleramo si domanda, osservando la maestria delle sarte e delle modiste, “perché tutta questa anonimia di fronte alla storia?” e vuole correggere la stortura; va bene che la moda ha un lato commerciale, ma anche la letteratura o il giornalismo lo hanno del resto: perché non dare a chi conosce l’arte dello stile lo spazio che merita? La domanda resta senza una risposta convincente ancora oggi: le arti tessili sono spesso rilegate ai musei di arti applicate o decorative, che sono meno frequentati, più per addetti ai lavori che per il grande pubblico, ma a guardare certi tappeti e arazzi non saprei se son davvero meno importanti dei dipinti, e anche di movimenti d’avanguardia come il Bauhaus, la parte del fashion design è sotto rappresentata; per non parlare delle arti delle culture non europee, tutte buone per i musei antropologici.

“Perché tutte queste artiste, veramente tali, debbono ottenere solo il successo industriale?” si chiedeva Aleramo e gli articoli di e su Rosa Genoni, una delle prime sarte-scrittrici, non ci aiutano a rispondere alla domanda. Genoni presenta una collezione di abiti ispirati alla grande arte mondiale, riprodotti anche nel libro, e scrive che “la moda si plasma secondo il carattere storico ed etnico del paese in cui fiorisce”, quindi quale luogo migliore dell’Italia per far sviluppare una alta moda? Al tempo quello che oggi chiamiamo Made in Italy sembrava una impresa se non impossibile, non del tutto credibile. Com’è possibile? Probabilmente perché era a guida femminile e le cui competenze erano connotate come tali – vale la pena dire che quelle competenze sono “femminili” perché era ciò che alle donne era permesso di imparare, ma non c’è nessuna abilità naturale del genere – ma la frustrazione di Genoni è comprensibile. Questa coincidenza tra spazio al margine e rivendicazioni essenzialiste si trova in tutto il libro, ma va detto che non era ancora arrivata Simone De Beauvoir a chiedere cos’è una donna, né Butler a chiedere cos’è il genere.

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È un po’ questo il paradosso a cui alludevo all’inizio: c’è un doppio vincolo tra questa visibilità imposta alle donne, per cui effettivamente da una parte l’attenzione maggiore agli abiti – alla presentazione, a come colorarsi i capelli e a quale cipria applicare etc. – viene presentata come una competenza specifica, e, dall’altra, si percepisce una sorta di stanchezza rispetto all’idea di dover o meno piacere agli uomini. Ognuna di queste giornaliste-scrittrici sembra scontrarsi con lo stesso paradosso: bisogna piacere a sé o agli uomini? Sono due cose diverse? Le donne sono civettuole e hanno una grazia tutta loro?

C’è chi, come Matilde Serao, parla di sport che possono cambiare il fisico e se sia il caso o no di praticarli, chi di capelli corti o abiti più comodi e meno ingombranti (Contessa Lara), per dire che le donne vogliono più spazio di manovra nella società; vediamo donne che si lamentano di non avere tempo per prepararsi (Olga Ossani, che conia il neologismo bottegando per tradurre l’inglese shopping) o che la moda cambia troppo velocemente (Mara Antelling).

Sembra non essere cambiato moltissimo, in questo senso, rispetto alla frustrazione per l’impossibile corvée dell’aspetto femminile, ma d’altra parte c’è il desiderio di celebrare questa capacità di stare nel corpo, di stare nella presentazione cangiante, fluida, sensuale di sé. Vale allora la pena dire che la moda e la creazione di se stessa non sono esattamente la stessa cosa, ma il paradosso resta e non si scioglie – e se sono almeno cento anni che ne scriviamo, e ancora ne passeranno altri, vuol dire che qui c’è davvero qualcosa di importante – o qualcosa a cui almeno penso ogni giorno, ma sono sicura di non essere la sola.

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