storia di spaghetti e ciclismo

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Questo articolo è tratto “Spaghetti”, terzo volume del bookazine trimestrale del Touring Club “Mappe”. Un volume tutto dedicato alla pasta, “lingua universale in cui gli spaghetti forniscono condimenti e dialetti per un racconto unita­rio, e allo stesso tempo celebrano geografie complesse, coordinate non ovvie”.


Quando l’alimentazione sportiva non era una scienza, gli spaghetti erano una componente del ciclismo quanto lo striscione di partenza e quello di arrivo. Dai quali non erano mai lontani, dato il fabbisogno calorico (e la fame da lupi) legato agli sforzi prolungati dei ciclisti. Dai tempi in cui Alfredo Binda controllava di persona la cottura nelle cucine a quelli più recenti in cui Damiano Cunego li copriva di marmellata, sono sempre stati presenti nelle corse a tappe.

Anche durante le tappe: online si trovano diverse foto in cui un ciclista non sempre italiano mangia spaghetti in sella con disinvoltura, in mezzo alla strada. E dire che ci sono inglesi che non riescono a farlo seduti a tavola. Ci fu però una spaghettata a quattro che nel suo piccolo fece sensazione ai tempi in cui, erano gli anni Sessanta, il ciclismo rivaleggiava col calcio nei cuori degli sportivi italiani.

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Spaghetti. Mappe. Vol. 3

Descrizione

Un piatto di spaghetti non è solo un piatto di pasta. Con il pomodoro o senza, è diventato un simbolo di identità italiana: del resto fino a qualche anno fa all’estero ci identificavano, con disprezzo, “mangiaspaghetti”. Di certo siamo il Paese che consuma più pasta – 23,2 chilogrammi a testa ogni anno –, siamo i primi produttori al mondo e abbiamo la tendenza a farne motivo di vanto ovunque si rappresenti la cultura nazionale. Ma il mito delle origini va smontato: consumati dal Giappone agli Stati Uniti, i noodles/spaghetti sono sempre stati un cibo globale. Non giungono fino a noi dalla Cina portati da Marco Polo, l’intreccio delle origini è ben più complesso: l’arrivo sulle nostre tavole è assai più recente, la sua geografia vasta e sorprendente. Prodotto dell’incessante incontro tra le culture, consumati a ogni latitudine, freschi, secchi o disidratati, gli spaghetti di oggi sono la testimonianza che l’identità a tavola è un concetto in divenire, vivo e mutevole. In questo terzo titolo, Mappe racconta queste sottili corde di grano, semplici e familiari, e tutto l’universo della pasta: storie di luoghi nostrani ed esotici, di contadini e chef, d’invenzioni e leggende, di immaginari globali e ricordi personali, nelle quali quel che conta è l’attenzione alla preparazione, la fantasia nel condimento e la voglia di condividere.

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Giro d’Italia del 1966, la Rai e i giornali immortalano, nello stupore generale, il già leggendario Jacques Anquetil (uno che ha vinto 5 Tour de France) che invece di seguire la propria suggestiva dieta (“uno champagne, un fagiano, una donna”), con tanto di berretto da cuoco in testa offre un piatto di pasta all’altro veterano Vittorio Adorni, mentre al loro fianco i giovani Felice Gimondi (a destra, con la maglia Salvarani) e Gianni Motta (di cui in questa foto si vede solo un braccio proteso) sorridono ma incombono, sapendo che è il loro momento. In tutti i sensi. Anche se la maglia rosa è indossata dallo spagnolo Julio Jiménez, ad accendere la fantasia del pubblico sono i quattro (tre e un braccio…) seduti a tavola – o quanto meno, al manubrio. In realtà è solo una messa in scena per i tifosi: l’apparenza conviviale suggellata dagli spaghetti cela il desiderio di prendersi a forchettate.

Anquetil e Adorni sono alleati occasionali per sfruttare le ingenuità dei rivali più giovani: Gimondi vincitore del Tour dell’anno precedente davanti a Motta, terzo. Adorni, compagno di squadra di Gimondi alla Salvarani, dorme in stanza con lui (“per avvelenarlo”, esagerano i tifosi). Quando Gimondi fora una gomma, Motta parte all’attacco: Anquetil lo va a prendere e ne spegne la fuga. Motta pare isolato, e al seguitissimo programma di Sergio Zavoli, Processo alla tappa, è incoraggiato a stringere la mano al sornione Gimondi, ma rifiuta e se ne va. Il giorno dopo, sulle strade appaiono cartelli di insulti. Il 23enne di Cassano d’Adda scoppia a piangere in albergo, vuole abbandonare il Giro. Accusa il bergamasco di aver aizzato i fan e di averlo pure ammesso: «Ha detto che me l’avrebbe fatta pagare». Gimondi non nega: gli ha rivolto quelle parole. «Qualche motivo per avercela con lui ce l’ho: appena ho forato ha lanciato l’urlo di guerra. Gli ho detto che alla prima occasione lo avrei ripagato, ma intendevo farlo quando avrebbe bucato una gomma. Purtroppo invece sono io che continuo a forare: già sei gomme sono andate al diavolo e sempre mentre si va a 50 all’ora. Comunque, lui ha fatto ciò che ha ritenuto giusto. Non ho montato la gente contro di lui, ci sono anche cartelli contro di me. Magari un po’ meno».

Adorni filosofeggia: «Motta è giovane. Imparerà a mandar giù come tutti noi. Siamo professionisti esposti a tutto. Accadono cose ingiuste e cattive, ci sono cartelli che fan venire voglia di saltar giù dalla bici e sistemare le cose di persona come ai loro tempi Coppi, Bartali e Magni. Ma vale la pena?». Forse il buon Vittorio si sarebbe trovato bene anche nell’epoca dei social network.

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Rincuorato dalla mamma, fatta arrivare in albergo dallo sponsor, Motta si scusa con Gimondi. Adorni bene-dice il tutto, ma due giorni dopo stacca entrambi alla cronometro di Parma, casa sua, e si prende la maglia rosa. Stavolta il più giovane della spaghettata non si fa abbattere e a Brescia balza in testa. Nelle tappe successive Jiménez e Gimondi andranno in fuga a turno, ma sarà Motta a vincere il Giro davanti al “neutrale” Zilioli. Con un guizzo Anquetil precederà i rivali finendo sul podio, arrivando terzo prima di Jiménez (quarto), Gimondi (quinto) e Adorni (settimo): un’ultima piccola forchettata prima di ritirarsi e dedicarsi a quella sua dieta.



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