Depositi petroliferi a Vibo Marina, uno sfregio ambientale e paesaggistico lungo mezzo secolo

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Dopo l’ordine di sequestro, disposto dalla magistratura vibonese, nei confronti del deposito Meridionale Petroli, si riaccende il dibattito sulla possibilità di una delocalizzazione di tali insediamenti industriali. I sigilli sono scattati giovedì scorso: alla società vengono contestati lo scarico abusivo di acque industriali nelle fogne e l’inquinamento dell’aria. In quest’ultimo caso sono stati rilevati infatti valori anomali di benzene in atmosfera, il che avrebbe rappresentato un potenziale pericolo per la salute dei lavoratori.

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Per conoscere la storia del sito produttivo bisogna andare indietro di qualche decennio. Tutto inizia nei primi anni ’60, quando sull’area portuale e nel territorio costiero iniziano a sorgere i depositi costieri di carburante, alimentati dal traffico via mare delle petroliere che trasportano i prodotti petroliferi provenienti dalle raffinerie siciliane. L’arenile viene sventrato per l’attraversamento delle condotte che portano gli idrocarburi ai grandi depositi di stoccaggio, da dove verranno poi trasportati dalle autocisterne in tutta la Calabria.

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Spesso le tubature vengono messe a nudo dalle mareggiate. Per un lungo periodo ne risente anche il turismo e, in particolare, l’attività di balneazione in quanto le navi-cisterna, una volta fuori dal porto, lavano le taniche rilasciando in mare grandi quantità di nafta e catrame che si riversano sulle spiagge colorando il litorale di nero. Il centro abitato di Vibo Marina impara a conoscere un incessante andirivieni di autocisterne, con relativo aumento dell’inquinamento atmosferico e acustico, mentre nei pressi degli stabilimenti si respirano vapori non proprio salubri.

Il primo insediamento è quello della Romim spa, oggi Meridionale Petroli, che occupa una vasta area compresa tra il porto e la vicina spiaggia. Seguiranno l’Agip e Basalti & Bitumi. Vengono spesso ignorate le norme di salvaguardia ambientale, senza contare il rischio di incidente industriale, come sarebbe in seguito avvenuto con la tragedia di Viareggio del 2009. Ma, a fronte del danno ambientale, nessun ritorno in termini economici viene riconosciuto al territorio costiero, che nel frattempo produce notevoli flussi finanziari a favore di Stato e Regione, quantificabili in centinaia di milioni all’anno sotto forma di accise sui prodotti petroliferi. Questi ingenti flussi neanche in minima parte sarebbero poi ritornati sul territorio che li aveva generati, sotto forma di investimenti o di opere di risanamento, ignorando l’elevato prezzo pagato in termini ambientali dalla collettività per la presenza di tale tipo di insediamenti.

Da sottolineare che alle accise viene infatti attribuita dalla normativa europea, in conformità al principio “chi inquina paga”, una finalità di tutela ambientale secondo la direttiva europea in materia di tassazione dei prodotti energetici n 96/2006. Dopo l’alluvione del 2006, l’ordinanza n 61 del 2008, emessa dal Commissario Regionale per l’Emergenza, aveva imposto alle imprese la loro delocalizzazione, entro dodici mesi, in aree più sicure, già individuate nello stesso territorio costiero, ma dopo diciotto anni nulla si è mosso, anche perché il Piano Versace aveva classificato R4 l’intero territorio. La delocalizzazione avrebbe consentito di restituire alla cittadina portuale migliaia di metri quadrati di aree, cosa che avrebbe permesso di procedere finalmente a una vera riqualificazione urbana e ad assicurare al porto i necessari spazi per un suo sviluppo, oltre a restituire alla cittadina un’immagine meno degradata di quella attuale, premessa indispensabile per un suo possibile rilancio nel settore turistico.

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Ma, sull’altro fronte, c’è anche chi paventa il rischio che un’eventuale delocalizzazione degli insediamenti esistenti possa indurre le aziende proprietarie a rivedere le loro posizioni, con conseguente creazione di tensioni occupazionali e declassificazione del porto dovuta al decremento dei traffici. Occorre fare delle scelte e recentemente anche il presidente dell’Autorità di Sistema Portuale ha chiesto al sindaco della città il suo parere su quale tipo di vocazione dovrebbe assumere il porto di Vibo Marina.





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