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«È necessario un cambio di strategie – scrive Marino Bottà, concludendo la sua trattazione sul tema disabilità e lavoro, avviata in questi mesi sulle nostre pagine – per rinnovare la cultura dell’inclusione e promuovere servizi territoriali in grado di ridare fiducia e prospettive a centinaia di migliaia di persone con disabilità disoccupate e alle loro famiglie. Ma per fare questo bisogna avere l’onestà intellettuale di osservare oggettivamente la realtà attuale»
Un lavoratore con disabilità intellettiva

(dalle puntate precedenti…) Gli antichi Greci consideravano la “crisi” come un momento catartico, una pausa per la rinascita, per il cambiamento, mentre la cultura romano-cristiana la considerava come l’inizio della fine, la morte dell’esistente. Comunque la si interpreti, la crisi del Collocamento Disabili è iniziata sin dal giorno della sua nascita, primo gennaio del 2.000, per poi subire un’accelerazione nel 2.008, all’inizio della crisi finanziaria. Da allora assistiamo ad un continuo declino e ad un crescente disinteresse generale da parte delle Istituzioni preposte e delle parti sociali, mentre ogni fallimento delle politiche attive a favore delle persone con disabilità viene taciuto o attribuito alla Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili), accusata di essere inadeguata ed obsoleta; in alternativa sono gli imprenditori ad essere “insensibili” verso le persone con disabilità.
Nemmeno la crisi economica riuscì a cambiare le cose e lo stesso avvenne con la pandemia, con la crisi della globalizzazione e ora con la rivoluzione tecnologica. La classe politica è sempre più impreparata a recepire le trasformazioni sociali ed economiche, pertanto lascia languire la situazione nel dimenticatoio sociale, e rimanda ogni decisione al Governo successivo.
Si profila quindi un quadro preoccupante per l’occupazione futura delle persone con disabili, soprattutto per le fasce più fragili di esse.

L’ultima attenzione istituzionale risale al 2015, anno in cui vennero emanati i Decreti Legislativi 150 e 151. In seguito la politica si dimenticò perfino di ricordare i vent’anni della Legge 68/99 e del Collocamento Disabili. Non sono state da meno le Regioni, troppo impegnate altrove per accorgersi della deriva del loro sistema di collocamento. Nel contempo i servizi provinciali hanno continuato a vivere nell’immutabile quotidianità. Anche il dibattito, la critica e la riflessione si sono assopite in un disinteresse generale e nella rassegnazione di molti, cosicché la sfiducia nei confronti del Collocamento Disabili è cresciuta fino a spingere i disoccupati a non iscriversi (fenomeno riscontrabile dal divario numerico tra gli iscritti al Collocamento e le nuove certificazioni di invalidità in età lavorativa). La delusione rispetto alle aspettative li ha spinti ad arrangiarsi, a rivolgersi a soggetti privati o a rifugiarsi nell’assistenzialismo.
Purtroppo nemmeno la rivoluzione tecnologica creerà nuovi posti di lavoro per le fasce più deboli della disabilità (circa il 70% degli iscritti); per loro, infatti, si prospetta la disoccupazione a tempo indeterminato, accompagnata dall’invisibilità sociale, o dal rifugio “palliativo” nei social. La rivoluzione tecnologica non offrirà nuove professioni e nuove possibilità di inclusione lavorativa alle persone con difficoltà cognitive o con bassa scolarità. Quindi è necessario un cambio di strategie per rinnovare la cultura dell’inclusione e promuovere servizi territoriali in grado di ridare fiducia e prospettive a centinaia di migliaia di persone con disabilità disoccupate e alle loro famiglie. Ma per fare questo bisogna avere l’onestà intellettuale di osservare oggettivamente la realtà e serve un cambio di strategie per rinnovare la cultura dell’inclusione e promuovere adeguati servizi territoriali.

Le norme
Il sistema di collocamento si fonda sulla Legge 68/99, ma l’applicazione di essa è delegata alle Regioni. Si è così creato un circuito dove ogni Regione e ogni Provincia ha organizzato in proprio gli uffici e l’applicazione della norma. Infatti, troppo spesso le aziende e le persone con disabilità devono rifarsi “gli usi e costumi locali” e subire le volontà dei responsabili degli uffici.
A questa già grave disfunzione si aggiunge una pletora di leggi, decreti, circolari, note esplicative, interpelli ecc., cui si aggiungono le disposizioni regionali, tra delibere, provvedimenti dirigenziali e così via. Questo spesso ingenera nel personale addetto ignoranza delle norme e inadempienze che ricadono sui cittadini interessati.

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I dati
Sul tema disabilità e lavoro disponiamo di dati obsoleti e inattendibili, del tutto inutili per fare un’analisi della situazione e per realizzare qualsiasi utile programmazione. Di conseguenza si procede riproponendo il già fatto,, a prescindere dai risultati negativi conseguiti. Purtroppo anche la Banca Dati Nazionale prevista dal citato Decreto 151/15 si è persa nelle nebbie dei palazzi romani. Nel frattempo cresce la sfiducia nei confronti di un sistema sempre più scollato dalla realtà e incapace di sostenere l’occupazione.

Le differenze regionali
È per altro improprio parlare di sistema nazionale per il collocamento, se è vero che esso varia radicalmente da Regione a Regione. Disponiamo quindi di un “sistema arlecchino” con risultati “a macchia di leopardo” (“macchie” troppo spesso sbiadite). Questa situazione è ben conosciuta dalle singole Regioni e dal Ministero del Lavoro, ma non sapendo cosa fare, tutti preferiscono non metterci mano, mentre la situazione si va sempre più deteriorando.

L’inclusione lavorativa
La normativa inizialmente stabiliva che le aziende avessero facoltà di assumere il 60% dei lavoratori con disabilità mediante chiamata nominativa, ossia la possibilità di scegliere il candidato. Il Decreto 151/15 estese questa facoltà all’intera quota d’obbligo; quindi, oggi, le aziende ricercano e selezionano il 100% dei lavoratori con disabilità da assumere. Ovviamente scelgono i cosiddetti “disabili-abili”, mentre l’inserimento delle persone più fragili è implicitamente demandato a loro stessi o ai servizi accreditati al lavoro. Ne consegue che gli Uffici Provinciali si occupano unicamente degli aspetti burocratici e amministrativi previsti dalla legge: iscrizioni, graduatorie, trasferimenti ecc., cui si aggiunge un esiguo numero di avviamenti numerici verso le aziende non ottemperanti. Da sottolineare che anche in questo caso la scelta ricade sui soggetti più abili, in quanto la selezione è comunque subordinata ad un accordo preventivo con l’impresa.

Le evasioni e le elusioni
Un altro annoso e increscioso problema è rappresentato dal mancato rispetto degli obblighi di legge da parte delle aziende. L’evasione e l’elusione raggiungono infatti punte del 70 %, con buona pace dell’INL (Ispettorato Nazionale del Lavoro) e del Collocamento Disabili, gli uffici cui spetta il compito di controllo. Questo è dovuto al fatto che gli ispettori hanno una scarsa conoscenza della legge e delle relative procedure, mentre il collocamento nella quasi totalità dei casi non se ne occupa. Quanto affermo è facilmente riscontrabile dall’ammontare delle sanzioni versate sui fondi regionali.

Le buone prassi
Nel settembre del 2023 è stata istituita una piattaforma per raccogliere le buone pratiche e favorirne la diffusione. Un altro provvedimento inutile, visto che la gestione dei Centri per l’Impiego è di competenza delle Regioni e che non hanno mai attuato le proposte provenienti direttamente o indirettamente dal Ministero del Lavoro.

Il personale
L’attuale sistema di collocamento nasce con il DPCM 469/99, che dal 1° gennaio 2000 attribuì le competenze alle Regioni e alle Province; queste avrebbero dovuto operare in coerenza con il dettato della Legge 68/99. Ma la maggior parte del personale proveniva degli uffici periferici del Ministero del Lavoro (UPLMO) e la loro formazione era unicamente di tipo burocratico amministrativo, pertanto si trovarono ad operare privi di qualsiasi formazione sul tema disabilità/lavoro; quindi riproposero vecchi cliché operativi, ritornando a focalizzare l’attenzione sulle burocrazie e sul concetto di obbligatorietà per le aziende. Il principio del collocamento mirato, la “persona giusta al posto giusto”, naufragò miseramente. Del resto non poteva essere altrimenti, visto che né il Ministero del Lavoro né le Regioni pensarono di formare e aggiornare il personale.
Questa situazione si è perpetuata fino ad oggi, visto che i nuovi assunti sono stati formati dai colleghi professionalmente più anziani. Quindi attualmente disponiamo di Uffici per il Collocamento non di Servizi per il Collocamento Mirato. Non vi è una presa in carico della persona, né la personalizzazione dei percorsi di accompagnamento al lavoro, e nemmeno un sostegno alle aziende nell’adempimento degli obblighi, nell’uso di buone pratiche ecc. Un quadro deludente, quindi, di cui le Istituzioni, le parti sociali, gli esperti in materia non hanno alcuna conoscenza diretta; non sanno quello che quotidianamente succede negli Uffici Provinciali, non conoscono gli impegni né i bisogni del personale dedicato, le difficoltà che le persone con disabilità incontrano nel cercare un lavoro e gli imprenditori nell’ottemperare gli obblighi di legge. Non capiscono che un collocamento così strutturato non ha un’utilità sociale che giustifichi l’onere economico che comporta.
Eppure un servizio per il collocamento pubblico serve, oggi più che mai. Bisognerebbe però decidere un piano di formazione e aggiornamento in modo da uniformarne la cultura, la gestione della norma e contestualmente avviare un processo di riforma della Legge 68/99, raccogliendo in un unico testo tutte le norme prodotte in venticinque anni. Queste azioni non stravolgono i ruoli e le competenze delle varie Istituzioni coinvolte e non richiedono finanziamenti particolari, serve solo la volontà del Ministro Lavoro e degli Assessori Regionali.

Alla ministra del Lavoro, Marina Calderone, spetta il compito di avviare un processo di riforma. Sono però passati oramai due anni dalla sua nomina e nulla è cambiato e non vediamo nulla all’orizzonte. Anche la classe politica, sempre più impreparata, lascia languire la situazione nel dimenticatoio sociale, e, come detto in precedenza, rimanda ogni decisione al Governo successivo. Si sta quindi profilando un quadro sempre più preoccupante per l’occupazione futura delle persone con disabilità.

Quel che serve, in conclusione, è una legge non ideologica, ma pragmatica ed efficace, rispettosa dei bisogni delle persone e delle aziende, ed esigente specialmente nei confronti degli Enti Pubblici che non rispettano gli obblighi. È con questo spirito che nel dicembre dello scorso anno l’ANDEL (Agenzia Nazionale Disabilità e Lavoro) incontrò la vice ministro del Lavoro Maria Teresa Bellucci, sollecitandola a farsi promotrice di una iniziativa riformatrice. Anche l’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità si è mosso nella stessa direzione. Ma visto che nulla cambia, sarebbe opportuno promuovere una battaglia etica nell’interesse non solo delle persone con disabilità, ma per il futuro del nostro Paese. (3-fine)

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*Già responsabile del Collocamento Disabili e Fasce Deboli della Provincia di Lecco, oggi direttore generale dell’ANDEL (Agenzia Nazionale Disabilità e Lavoro) (marino.botta@andelagenzia.it). Le parti precedenti di questa trattazione sono disponibili a questo e a questo link.



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